La Prova
Cicero a Philosophia ad Publica Officia Revertitur
Ac mihi quidem explicandae philosophiae causam attulit casus gravis
civitatis, cum in armis civilibus nec tueri meo more rem publicam nec
nihil agere poteram, nec quid potius, quod quidem me dignum esset,
agerem reperiebam.
Dabunt igitur mihi veniam mei cives, vel gratiam potius habebunt, quod,
cum esset in unius potestate res publica, neque ego me abdidi neque
deserui neque adflixi neque ita gessi quasi homini aut temporibus
iratus, neque porro ita aut adulatus aut admiratus fortunam sum
alterius, ut me meae paeniteret.
Id eni ipsum a Platone philosophiaque didiceram, naturales esse quasdam
conversiones rerum publicarum, ut eae tum a principibus tenerentur, tum
a populis, aliquando a singulis.
Quod cum accidisset nostrae rei publicae, tum pristinis orbati
muneribus haec studia renovare coepimus, ut et animus molestiis hac
potissumum re levaretur et prodessemus civibus nostris qua re cumque
possemus.
In libris enim sententiam dicebamus, contionabamur, philosophiam nobis pro rei publicae procuratione substitutam putabamus.
Nunc quoniam de re publica consuli coepti sumus, tribuenda est opera
rei publicae, vel omnis potius in ea cogitatio et cura ponenda ; tantum
huic studio relinquendum, quantum vacabit a publico officio et munere.
CICERONE TORNA DALLA FILOSOFIA ALLA POLITICA
E
senza dubbio la difficile condizione della città mi diede motivo di
occuparmi di filosofia, dato che durante le guerre civili non potevo
servire la Repubblica come mio solito né fare nulla, né trovavo
alcunché di meglio da fare, che fosse quantomeno degno di me.
Dunque i miei concittadini mi perdoneranno, o piuttosto mi
ringrazieranno, per il fatto che io, nonostante lo stato fosse in mano
di un solo uomo, non mi sono ritirato né lasciato andare né afflitto,
né mi sono comportato così come se fossi stato adirato con l'uomo o con
le circostanze, né d'altro canto ho adulato o ammirato la sorte altrui
tanto da dispiacermi dalla mia.
Difatti proprio questo avevo appreso da Platone e dalla filosofia, che
certe trasformazioni degli stati sono naturali, cosicché essi sono
retti ora dalla persone più ragguardevoli, ora dal popolo, talvolta da
singoli individui.
Ed essendo ciò accaduto alla nostra repubblica, allora , una volta
privato dagli impegni d'un tempo , ho iniziato a rianimare questi
interessi, perché, con questa attività in particolare, anche l'animo
fosse sollevato dall'inquietudine ed io giovassi ai miei concittadini
in ogni modo possibile.
Infatti nei libri esprimevo il mio giudizio, lo palesavo, consideravo
che la filosofia teneva per me il posto dell'amministrazione dello
stato.
Ora, giacché si è iniziato a consultarmi riguardo allo Stato, devo
prestare sevizio alla Repubblica, o meglio rivolgere ad essa ogni
pensiero e preoccupazione; concedere a questo impegno tanto tempo
quanto rimarrà libero da pubbliche cariche o funzioni.
COMMENTO DEL VINCITORE
Nel brano Cicerone spiega come le guerre civili e la successiva
concentrazione dei poteri in un unico individuo lo abbiano
temporaneamente allontanato dalle funzioni pubbliche e gli abbiano
permesso così di dedicare il proprio otium alla speculazione
filosofica.
Certo l'autore soffre la lontananza dalla politica, ma non si è
scoraggiato (come dice esplicitamente), né ha provato invidia per la
sorte altrui: al contrario con la filosofia, in particolar modo quella
platonica, ha appreso che cambiamenti come quelli verificatesi nella
propria epoca a Roma (dopo Cesare nasce l'Impero) sono in qualche modo
naturali.
Il riferimento a Platone è particolarmente significativo, perché
seguendo l'indirizzo del filosofo greco, Cicerone sembra tornare sulla
scena politica non con un impegno attivo, ma con una funzione quasi
"consultiva" a metà tra il politico ed il filosofico.
La repubblica dei filosofi è di certo un'utopia, ma la visione
ciceroniana di un filosofo (ma già politico ed oratore) a servizio
dello stato è interessante perché ritornerà nella storia latina con
Seneca, e non è molto lontana dal "Dispotismo illluminato" del '700,
pur con le dovute differenze.
Dal punto di vista stilistico, seppur nella generale e quanto mai
consueta concinnitas, il brano mi appare divisibile in due parti,
distinte per il tono dell'enunciato.
La prima parte, dall'inizio fino a singulis (tredicesimo rigo), ha
connotazioni prevalentemente narrative, e si snoda in tre periodi
articolati e tuttavia regolati da un rigoroso equilibrio e da una
sintassi, come consuetudine, paratattica. Si prenda ad esempio il primo
periodo, che, chiaro esempio di perfetta concinnitas, ha la seguente
struttura: frase principale (con la simmetria ogg-verbo-sogg),
subordinata temporale (due infinitive soggettive coordinate+verbo
reggente), coordinata alla subordinata precedente spezzata da una
relativa caratterizzante.
Il secondo periodo è interessante a livello retorico per l'insistita
anafora del "neque", che pone uno straordinario accento enfatico sul
fatto che l'autore non si è lasciato andare allo sconforto
(evidentemente Cicerone voleva attirare una cospicua attenzione su
questo punto).
Da segnalare a livello retorico il chiasmo "Dabunt……. cives,
vel……..habebunt" teso alla costruzione di un equilibrio simmetrico, e
la prolessi "Id enim ipsum" riequilibrata alla successiva epanalessi in
forma di infinitiva esplicativa.
Ma quello che mi sembra effettivamente rilevante è il cambio di tono
che avviene nella seconda parte del brano, riscontrabile nell'uso del
plurale maiestatis.
Questo
è dovuto al fatto che l'enunciato si eleva a livello contenutistico,
perdendo il proprio carattere narrativo ed innalzandosi ad un piano più
speculativo e meno concreto, che giustifica dunque l'assunzione da
parte di Cicerone di un tono più solenne. Si fanno anche strada
preziosità retoriche che rendono in qualche modo "musicale" la lettura
come nel caso della clausola "cumque possemus" cioè un dattilo più un
trocheo.
E' tipico di Cicerone anche fondere poesia e prosa.
Considerando quanto detto sembra quasi che quest'ultima parte del brano
abbia i tratti del Peroratio, e si presenti con una funzione che sta a
metà tra il conativo (un'esortazione alla filosofia abbinata al
negotium, dunque) ed il didascalico.