Marco Tullio Cicerone
di Emanuele Narducci
Arpino, dove Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a. Chr.n., godeva ormai da tempo della cittadinanza romana a pieno titolo. Continuava a servirsi del voto orale, pronunciato a voce, laddove Roma da tempo si avvaleva del voto scritto, il quale almeno in teoria garantiva la segretezza dei suffragi. In un sistema clientelare, il voto orale permetteva, naturalmente, l'esercizio di pressioni di ogni genere sugli elettori. Proprio il nonno di Cicerone fu a suo tempo, nella municipalità di Arpino, il più tenace organizzatore della resistenza alla proposta popolare di introdurre il voto segreto su scheda: ciò gli valse gli elogi di membri influenti dell'aristocrazia della capitale, e forse una promessa di sostegno, qualora avesse desiderato intraprendere una carriera politica a Roma. Nel ‘De legibus’ Cicerone ricorderà con orgoglio queste glorie della sua famiglia. I genitori erano di condizione economica e sociale più che discreta: il padre apparteneva all'ordine equestre, e la madre veniva da una famiglia che aveva già dato a Roma dei senatori. In più di un senso, la successiva ascesa sociale di Cicerone fu preparata dai legami che membri della sua famiglia - rappresentanti conservatori di una ‘piccola nobiltà’ di provincia con spiccato senso delle proprie prerogative di ceto - intrattenevano con alcune grandi casate romane.
L’asianesimo giovanile
Cicerone si trasferì prestissimo a Roma, per compiervi gli studi. Già negli anni giovanili intraprese un’intensa attività di patronato processuale, che gli valse notorietà ed importanti legami. Lo stile dei suoi primi discorsi dimostra un’artificiosità che risente ancora moltissimo della maniera “asiana” di Ortensio Ortalo, il più importante oratore della generazione precedente. Del suo influsso Cicerone incominciò a liberarsi solo dopo un lungo viaggio di studio in Grecia e in Asia Minore, compiuto tra il 79 e il 77. Nel 76 Cicerone fu questore in Sicilia, conquistandosi fama di amministratore onesto e scrupoloso. Alcuni anni dopo, nel 70, i Siciliani si rivolsero a lui per chiedergli di assumere il loro patrocinio nella causa da essi intentata contro l’ex governatore Verre, il quale si era dimostrato di una rapacità e di una crudeltà incredibili.
IL PROCESSO DI VERRE
La ‘Actio prima in Verrem’
Accusando Verre, Cicerone si confrontava direttamente con Ortensio Ortalo, che ne aveva assunto la difesa e che, insieme agli altri potenti sostenitori del suo cliente, cercò di ritardare lo svolgersi del dibattimento fino all’anno successivo: nel 69 Ortensio sarebbe entrato in carica come console, e avrebbe potuto influenzare più favorevolmente l’esito del processo. Cicerone bruciò i tempi attraverso una rapidissima istruttoria in Sicilia, e alla prima seduta, nell’agosto del 70, tenne una requisitoria assai breve, per quanto patetica e sconvolgente (‘Actio prima in Verrem’), passando quasi immediatamente all’interrogatorio dei moltissimi testimoni a carico. Questa tattica processuale innovativa colse Ortensio del tutto alla sprovvista, e Verre fu costretto a fuggire in esilio per scampare all’inevitabile condanna.
La ‘Actio secunda in Verrem’: cinque discorsi fittizi
La necessità di forzare i tempi aveva costretto Cicerone a rinunciare a dispiegare pienamente le potenzialità del suo nuovo stile oratorio. Per mostrare quale avrebbe potuto essere la sua eloquenza, se il processo si fosse svolto secondo la procedura abituale e anche per divulgare un pamphlet teso a conquistargli simpatie nei più diversi strati della società, qualche tempo dopo egli pubblicò, in forma di arringa accusatoria suddivisa in cinque “discorsi” fittizi, il lunghissimo dossier sulle malefatte compiute da Verre nella sua carriera di amministratore (‘Actio secunda in Verrem’).
Stile delle ‘Verrinae’
In queste orazioni mai effettivamente tenute, Cicerone si sforzò di conservare l’andamento spontaneo, le movenze, le intonazioni e le inflessioni della parola vivente. La vittoria su Ortensio significò anche il trionfo di un nuovo stile oratorio, che quasi più niente concedeva al manierismo istrionesco. Del gusto asiano Cicerone mantiene un certo compiacimento per l’accumulazione e l’amplificazione a fini espressivi; ma le ‘Verrinae’ (così si definisce il complesso delle orazioni contro Verre) limitano drasticamente la ricerca di effetti facili e stucchevoli, e sono caratterizzate da un periodare armonioso e complesso, la cui architettura desta un’impressione di gravità solenne. Cicerone tiene grande conto delle esigenze dell’orecchio e del ritmo, ma sa infondere ai suoi periodi vita ed energia superiori a quelle di alcuni tra i suoi grandi modelli greci. La narrazione è ricca dei colori e dei toni più vari, e spazia agilmente tra i più diversi registri dello stile; particolarmente notevoli sono i quadri di satira graffiante, in cui Cicerone ritrae Verre e i membri del suo entourage.
IL CONSOLATO E LA LOTTA CONTRO CATILINA
Proseguendo con regolarità la carriera politica e forense, Cicerone arrivò a ricoprire il consolato nel 63 a. Chr.n. . Era la prima volta da molto tempo che un ‘homo novus’ come lui - cioè un personaggio privo di importanti tradizioni politiche familiari - riusciva ad arrivare così in alto. Il suo successo fu dovuto soprattutto al fatto che, in presenza di gravissime tensioni politiche e sociali, la nobiltà individuò in lui un candidato capace di sottrarre ai ‘populares’ una parte dell’elettorato, e fece pertanto confluire su di lui tutti i voti che era in grado di mobilitare.
Le orazioni ‘Catilinariae’
Nell’anno del consolato Cicerone denunciò e represse il tentativo rivoluzionario messo in atto da un nobile spiantato e avventuriero, Lucio Sergio Catilina, che era riuscito a organizzare il malcontento e la disperazione di strati sociali diseredati. Le quattro orazioni ‘Catilinariae’, tenute di fronte sia al Senato sia al popolo, documentano la lotta di Cicerone contro la sovversione nei termini di un’eloquenza spesso accesa e veemente, ma non aliena da spunti più razionali di analisi “sociologica” del quadro delle forze sociali in campo. Cicerone ottenne dal Senato la condanna a morte, senza processo, dei complici di Catilina, che era riuscito a fare arrestare. Di lì a pochi anni, questa decisione gli sarebbe costata l’esilio.
IL DECLINO POLITO E L'ESILIO
La linea politica perseguita da Cicerone durante il consolato prevedeva un’alleanza di aristocrazia e ordine equestre, allo scopo di porre un argine alle tendenze sovversive che serpeggiavano nella società. Nonostante la chiusura alle esigenze degli strati più disagiati, il progetto ciceroniano non era semplicemente “reazionario”; la sua più importante novità stava nel tentativo di rispondere alle esigenze di un blocco sociale composito e variegato, ancora alla ricerca di una coscienza politica unitaria: la “gente perbene”, ossia in sostanza i ceti possidenti di tutta l’Italia. La necessità di consolidare e orientare questo blocco sociale significava di per sé un superamento degli obiettivi tradizionali della politica romana, per lo più prigioniera di una lotta di fazioni e di cricche clientelari.
Gli elementi centrali della coalizione auspicata da Cicerone, l’ordine senatorio e l’ordine equestre, restavano tuttavia divisi da conflitti politici e di interesse, destinati a rinfocolarsi, una volta passata la necessità di fare fronte comune contro il pericolo catilinario. Intanto andava delineandosi la supremazia dei grandi “potentati”, Cesare, Pompeo e Crasso, che nel 60 si sarebbero uniti nel cosiddetto «primo triumvirato», accordo segreto in vista della spartizione del potere. Cicerone vide rapidamente sgretolarsi il consenso intorno alla propria linea politica, e divenne oggetto di attacchi ripetuti, concentrati soprattutto sull’esecuzione sommaria dei complici di Catilina. Nel 58 Publio Clodio - un tribuno che rivelò formidabili capacità nell’agitazione demagogica del proletariato urbano e nella sua organizzazione in vere e proprie bande armate, fino a gettare Roma in uno stato di anarchia - riuscì a far condannare Cicerone all’esilio.
LA NUOVA POLITICA DI CICERONE
Eloquenza nutrita di filosofia
Richiamato a Roma nel 57 grazie allo schiarirsi della situazione politica, Cicerone fornì negli interventi del periodo successivo una nuova versione del suo progetto politico, e una rilettura delle proprie esperienze alla luce di una meditazione filosofica, che da allora in poi lasciò tracce importantissime nella sua eloquenza.
L'orazione ‘De domo sua’
Così nella ‘De domo sua’ (57 a. Chr.n.) - il discorso tenuto di fronte al collegio dei pontefici per rientrare in possesso dell’area dove sorgeva la sua casa, che Clodio aveva fatto demolire per edificare al suo posto un tempietto di ‘Libertas’ - Cicerone polemizza con quanti avevano criticato la scarsa fermezza d’animo che egli avrebbe mostrato durante il suo esilio. Proprio la grandezza della sofferenza che aveva provato, dava la misura del suo sacrificio in favore della patria; e quella sofferenza, spiega l’oratore, lo aveva reso consapevole dell’impossibilità di affrontare le privazioni conseguenti alla calamità dell’esilio con una saggezza di tipo stoico; perciò Cicerone rivendica, contro la “indifferenza al dolore” propagandata dagli stoici, l’opportunità di lasciarsi guidare, nelle proprie reazioni, da un “senso comune” che non può giudicare “indifferente” quanto di bene o di male può capitare nella vita (il concetto veniva dalla polemica accademico-peripatetica, cioè dei seguaci di Platone e di Aristotele, contro i paradossi dell’etica stoica).
La ‘Pro Sestio’: il nuovo programma politico di Cicerone
Tra le orazioni di questo periodo spicca - in quanto vero e proprio “manifesto” del nuovo programma politico di Cicerone — la ‘Pro Sestio’ (56 a. Chr.n.), difesa di un personaggio che veniva citato in giudizio dai partigiani di Clodio per gli episodi di violenza connessi con la sua attività in favore del richiamo di Cicerone. In questo discorso si mostra al suo meglio una della peculiarità più caratteristiche dell’eloquenza di Cicerone, la capacità di inquadrare il singolo caso in dibattimento in un contesto politico, sociale e culturale assi più vasto e generale. L’oratore rintraccia una perpetua divisione del corpo cittadino tra sostenitori dell’ordine costituito e della fedeltà alla funzione direttiva del senato, e fautori del disordine, della sommossa, della sedizione. Egli si sforza di indicare ai giovani desiderosi di intraprendere la carriera politica un altissimo ideale di servizio verso lo stato, fondato sulla ricerca di una “vera gloria” (un altro concetto di derivazione filosofica), del tutto indipendente dal momentaneo successo che deriva dalla compiacenza verso i “capricci” del popolo. I leaders della gente “perbene” hanno il compito di garantire l’ordine e la tranquillità sociale reprimendo ogni conato sedizioso; essi sono chiamati a interpretare e a dirigere la volontà di un’opinione pubblica rappresentata, in tutta l’Italia, da quanti, indipendentemente dalla loro collocazione nella gerarchia sociale, godono di buona salute economica e morale, ed avversano pertanto la sovversione; un’opinione pubblica di fronte alla quale i leaders politici sono fatti responsabili delle loro scelte: il governo dell’aristocrazia trova così una giustificazione che va al di là della consuetudine autoritaria all’esercizio del potere.
La ‘Pro Caelio’ e la questione giovanile
Meno di un mese dopo la ‘Pro Sestio’ Cicerone tornò a occuparsi dell’educazione dei giovani nella ‘Pro Caelio’, la difesa di un suo vecchio allievo nell’eloquenza, ora accusato di atti di violenza politica. Fino a poco prima Celio era stato l’amante di Clodia, sorella del tribuno (probabilmente la “Lesbia” di Catullo), la quale sembra intendesse presentarsi in tribunale per aggiungere ai già pesantissimi capi di imputazione contro Celio quello di avere tentato di avvelenarla.
La ‘Pro Caelio’ è una delle orazioni più divertenti e brillanti di Cicerone, senz’altro uno dei suoi capolavori. Nell’intento di pilotare i giudici attraverso gli stati d’animo più diversi, Cicerone si avvale di una pittoresca alternanza di toni e di registri, che lascia emergere di preferenza la vena brillante, ironica, talora apertamente comica.
Umorismo e comicità nella ‘Pro Caelio’
Clodia è ridicolizzata come un’innamorata respinta, indotta esclusivamente dalla gelosia a farsi l’unica regista delle manovre contro Celio. L’oratore fa dei costumi sessuali notoriamente liberi di Clodia l’oggetto dell’ilarità degli ascoltatori, mentre dipinge il suo cliente come un giovane morigerato, solo momentaneamente traviato dalle arti di una donnaccia; e di qui prende lo spunto per formulare, tra il serio e il faceto, l’ideale di un’educazione tollerante nei confronti dei piccoli capricci, o delle momentanee deviazioni morali e politiche di tanti giovani della Roma contemporanea.
Una nuova educazione
Al di là del tono brillante e mondano, la ricerca di un’etica lontana dal rigore arcaico, più adeguata a una società ormai ricca e agiata, corrisponde a un’esigenza costante da parte di Cicerone. Nella ‘Pro Caelio’ egli ha inteso tra l’altro rendere in qualche modo più “umano” e più praticabile l’alto ideale di servizio verso lo stato già additato ai giovani nella ‘Pro Sestio’: alla buona causa sono recuperabili anche giovani che l’ardore dell’età e l’esuberanza del talento hanno spinto ad avventurarsi lungo strade poco raccomandabili
IL PROCESSO DI MILONE E LA GUERRA CIVILE
Negli anni successivi Cicerone fu spesso costretto, con fortissime pressioni, a farsi portavoce delle esigenze politiche dei triumviri, e a difendere vari personaggi a loro legati. A Roma continuavano intanto a imperversare le bande armate di Clodio, cui si opponevano quelle arruolate da Milone, un fautore del Senato. Clodio rimase ucciso in uno scontro avvenuto nella campagna romana, nel gennaio del 52. La rabbia della plebe urbana esplose con una violenza senza precedenti.
‘Pro Milone’: discorso reale e discorso fittizio
Cicerone, che difese Milone in una situazione di fortissima tensione, ebbe un cedimento di nervi, e pronunciò uno dei suoi discorsi più fiacchi; il suo cliente venne condannato, e dové fuggire in esilio. Ma la ‘Pro Milone’ che noi possediamo non è lo scialbo discorso che Cicerone pronunciò in quell’occasione; è frutto, invece, di una rielaborazione successiva: si tratta di un vero capolavoro, che combina in maniera magistrale la scaltrezza dell’avvocato e il soffio possente del grande oratore.
Cicerone nella guerra civile
Allo scoppio della guerra civile, nel 49, Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa del Senato e di Pompeo; dopo la vittoria di Cesare, si tenne per lo più in disparte dalla vita politica, cercando tuttavia di rendere il regime meno autoritario: per questo perorò di fronte al dittatore le cause di alcuni personaggi che avevano combattuto al fianco di Pompeo.
LA LOTTA CONTRO ANTONIO
Negli anni della dittatura di Cesare le amarezze politiche si accompagnarono per Cicerone ai dolori personali: il più grave fu la perdita della figlia Tullia. Nel 44 salutò con giubilo l’uccisione di Cesare; ma nuovi pericoli per la ‘res publica’ si profilarono quando Antonio, il più stretto collaboratore del dittatore, mostrò chiaramente di volerne assumere l’eredità. Intanto entrava in scena un nuovo personaggio, il giovanissimo Ottaviano, l’erede per adozione di Cesare, con un esercito ai propri comandi. Cicerone assunse di nuovo un ruolo politico di primo piano; egli intendeva evitare la saldatura tra i potentati di Ottaviano e di Antonio, facendo del primo un sostenitore del senato.
Le orazioni ‘Philippicae’
Per indurre il Senato a dichiarare guerra ad Antonio, Cicerone pronunciò, a partire dell’estate del 44, una serie di orazioni politiche, le ‘Philippicae’ (il titolo, che risale a una definizione scherzosa dello stesso Cicerone, intendeva sottolineare il legame ideale con i celebri discorsi nei quali Demostene, il più grande oratore ateniese del IV sec. a. Chr.n., aveva combattuto le pretese all’egemonia di Filippo di Macedonia). Uno solo dei discorsi, il secondo, un attacco di violenza inaudita, non venne effettivamente pronunciato, ma fatto circolare come pamphlet.
Nelle ‘Philippicae’ Antonio è dipinto come un volgare bandito, programmatore di proscrizioni e di confische. Con sapiente varietà i vivacissimi quadri satirici di Antonio e del suo seguito di miserabili figuri, assetati del sangue della gente perbene e rapacemente incombenti sui loro patrimoni, sono alternati con i toni appassionati e magniloquenti. Cicerone ribadisce spesso come una morte gloriosa sia preferibile alla schiavitù, che si cela sotto l’apparenza della pace. Cariche di tematiche filosofiche, di trattazioni sulla “vera gloria” e su una ‘virtus’ che costituisce l’unico elemento saldo nell’incerta mutevolezza di ogni cosa, queste orazioni traducono sul terreno di una pubblicistica contingente il codice etico di un’aristocrazia ormai giunta al termine della sua parabola storica. Le ‘Philippicae’ costituiscono anche un tentativo assai ardito di influenzare l’opinione pubblica: diffusi probabilmente l’uno di seguito all’altro, i testi di questi discorsi lanciavano in tutto il mondo romano dei programmi che fissavano di volta in volta l’obiettivo da raggiungere nella lotta contro Antonio.
Morte di Cicerone
Dopo aver dato l’illusione di voler collaborare con il senato e con i cesaricidi, Ottaviano si alleò tuttavia con Antonio e con un altro capo cesariano, Lepido, instaurando una nuova dittatura (secondo triumvirato): Cicerone venne ucciso nel dicembre del 43 a. Chr.n. .
Il senso di un'esperienza politica e intellettuale
La determinazione con la quale si era lanciato nella sua ultima battaglia politica era stata senza dubbio rafforzata dalla meditazione filosofica. Nel periodo tra l’esilio e la morte egli aveva infatti affrontato il compito grandioso e nuovo dell’ammodernamento del pensiero politico e della morale romana. Nella funzione che egli aveva attribuito alla cultura per la salvezza dalla crisi dello stato, vi era forse una sopravvalutazione del ruolo storico dell’intellettuale, ma anche la nobilissima aspirazione a non anteporre l’egoismo, il cinismo e il culto della forza alla civiltà del confronto politico.
2. LE OPERE RETORICHE
ELOQUENZA E FILOSOFIA NEL ‘DE ORATORE’
Il ‘De oratore’, composto nel 55 a.Chr.n., è un dialogo in tre libri: un dibattito sulla natura e la funzione dell’eloquenza, ambientato nel 91 a.Chr.n., al quale Cicerone immagina prendano parte i più insigni oratori dei tempi della sua giovinezza, tra i quali Antonio e Crasso.
Forma letteraria del De oratore
La forma letteraria del ‘De oratore’ (esemplata sui dialoghi di Platone e di Aristotele)costituisce una novità assoluta nella cultura romana: i precetti della retorica non sono esposti in maniera sistematica e didascalica, ma in un dialogo che ha l’andamento ondeggiante della conversazione reale; e l’aridità dei manuali è superata facendo delle scelte retoriche un’espressione della personalità dell’oratore, fondata in primo luogo su una prodigiosa esperienza del foro e dei tribunali romani.
Funzione dei personaggi di Antonio e Crasso
Pur dividendo tra Antonio e Crasso le diverse sfumature delle sue opinioni, Cicerone affida soprattutto al secondo il compito di farsi portavoce dell’ideale di un oratore nutrito di cultura vastissima, che abbracci la letteratura, la storia, la filosofia, la giurisprudenza, ed elementi delle discipline più disparate. L’insistenza di Crasso sui valori che devono essere alla base della formazione dell’oratore gli permette di conferire all’eloquenza una dimensione pienamente civile e politica. Antonio, viceversa, privilegia nell’eloquenza gli aspetti, moralmente “neutrali”, che ne fanno un formidabile strumento di vittoriosa persuasione, indipendentemente dalla qualità etica e politica dei fini. Egli insiste moltissimo sulla necessità di concitare nell’uditorio le emozioni più violente, al fine di sbaragliarne le difese razionali (un punto che stava a cuore a Cicerone, il quale faceva del ‘pathos’ uno dei punti di forza della propria oratoria). Perciò Antonio non è niente di più di un grandissimo avvocato: in lui Cicerone sembra quasi raffigurare questo aspetto, niente affatto trascurabile, della propria stessa personalità.
L’oratore ideale
L’oratore ideale che Crasso dipinge combacia largamente con l’ideale di uomo politico che Cicerone raffigurerà nel ‘De re publica’. Al fine di poter incidere con la forza della parola in ogni settore dell’esperienza umana, all’oratore è richiesta - oltre alla piena padronanza delle tecniche retoriche della persuasione - una vastissima cultura generale, al cui interno un ruolo privilegiato è attribuito alla filosofia morale: insegnando a leggere nei cuori, questa si rivela della massima utilità per agire con efficacia sull’animo degli ascoltatori, ma è anche un mezzo per educare l’oratore al rispetto dei valori sui quali poggia la ‘res publica’.
La concezione dell’unità della cultura
La concezione ciceroniana dell’unità della cultura risponde anche alla preoccupazione di mantenere unite le forme di sapere che concorrono al rafforzamento del potere dell’aristocrazia. Per custodire, con la propria autorevolezza, le istituzioni e le tradizioni, l’oratore deve essere insieme filosofo, giurista e uomo di stato. Così Cicerone fonda la supremazia dell’oratore - prima che sul suo rango sociale o sulla vastità delle clientele - sull’autorità morale e politica, sulla vasta formazione culturale che si traduce in una superiore capacità di valutazione dei comportamenti. Ma altrettanto importante è l’intento di affermare la dimensione “artistica” dell’eloquenza: di qui la frequente insistenza sul piacere che essa provoca agli ascoltatori.
LA STORIA DELL'ELOQUENZA ROMANA DEL ‘BRUTUS’
Cicerone e gli atticisti
Nel ‘Brutus’, composto nel 46 a. Chr.n. sotto la dittatura di Cesare, Cicerone riprese, dopo diversi anni, la riflessione sull’oratoria. Da qualche tempo gli orientamenti fondamentali della sua eloquenza venivano messi in discussione da un gruppo di oratori più giovani, i cosiddetti atticisti. Le loro preferenze andavano a uno stile piano, conciso, incisivo, per il quale si ispiravano a modelli dell’eloquenza ateniese come Lisia; criticavano Cicerone per non avere preso sufficienti distanze dallo stile “asiano”: egli appariva loro troppo ridondante di parole e troppo attento agli effetti del ritmo e della sonorità.
Cicerone come culmine dell’oratoria romana
Anche il ‘Brutus’ è un dialogo, che ha per protagonisti l’autore stesso, l’amico Attico e Bruto. Dedicando l’opera a quest’ultimo, Cicerone si proponeva di sottrarre all’influenza degli atticisti un personaggio che gli pareva ben avviato verso la carriera di oratore. Egli si sforzò di delineare le proprie preferenze stilistiche nel quadro di una storia dell’eloquenza romana, dalle origini fino all’epoca attuale, ricostruita con grande talento di critico letterario. In questo contesto Cicerone colloca la propria stessa produzione, puntando a enucleare le caratteristiche salienti che avevano fatto del suo stile oratorio il più originale che Roma avesse mai conosciuto: la mirabile varietà dei toni, la capacità di mettere in luce le implicazioni generali delle cause in questione, l’abbondante uso dell’umorismo, il ricorso alla filosofia e alla storia, la sovrana abilità nel pilotare le emozioni dell’uditorio
La dittatura opprime l’eloquenza
Il ‘Brutus’ è tuttavia percorso da una fortissima vena di pessimismo sulle sorti future dell’eloquenza romana, che trova talora espressione in toni di struggente malinconia: dopo una splendida fioritura, culminata con lo stesso Cicerone, l’oratoria appare avviata a un inesorabile declino, dal momento che la dittatura di Cesare ormai inibisce la libera espressione politica e chiude ogni spazio ai nuovi talenti.
Contro gli atticisti: necessità di uno stile vario e potente
La linea di difesa adottata da Cicerone nei confronti degli atticisti consiste in primo luogo in una ridefinizione dello stesso “stile attico”, la quale, contro allo stile smagrito ed esangue di Lisia, privilegia il modello di Demostene, l’oratore più grande e più vario che Atene avesse conosciuto. Ma nei confronti degli atticisti Cicerone avanza anche una seconda importante obiezione: il valore dell’eloquenza si misura sulla capacità di persuadere larghe masse di persone; quindi il metro per giudicare l’eloquenza deve essere costituito dal successo che essa riscuote presso il popolo, prima che dal parere degli intenditori dall’orecchio raffinato e dal gusto elegante. Si richiede pertanto non uno stile sobrio e misurato quale quello che gli atticisti privilegiavano, ma uno stile dagli effetti potenti e grandiosi, tali da scuotere in profondità le coscienze.
L’ ‘Orator’
La polemica con gli atticisti continuò nell’ ‘Orator’, un trattato anch’esso dedicato a Bruto: tesi fondamentale dell’opera è che l’oratore veramente grande sa eccellere in tutti i registri dello stile, e in particolar modo in quello “grandioso” e commovente, capace di smuovere con violenza gli animi degli ascoltatori: una capacità che, a giudizio di Cicerone, mancava totalmente all’eloquenza troppo controllata degli atticisti.
3. I DIALOGHI POLITICI: ‘DE RE PUBLICA’ E ‘DE LEGIBUS’
Le opere politiche di Cicerone nascono, al pari delle successive opere filosofiche, dal bisogno di cercare un risposta alla gravissima crisi politica e morale che Roma stava attraversando. Il ‘De re publica’ fu pubblicato nel 51 a. Chr.n.: è un dialogo in sei libri (pervenutoci in condizioni assai lacunose), ambientato nel 129 a. Chr.n., cui intervengono Scipione Emiliano e altri membri della sua cerchia; la conversazione ha per oggetto quale sia la migliore forma di stato.
La “costituzione mista”
Cicerone riprende da diversi pensatori greci (tra i quali lo storico Polibio) la dottrina della cosiddetta “costituzione mista”.In base a questa teoria, le tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) sono viste come inevitabilmente soggette a degenerare nelle rispettive forme “estreme” della tirannide, della oligarchia (governo dei pochi) e della oclocrazia (governo della feccia del popolo). Per questo è necessario il contemperamento di elementi delle tre diverse costituzioni in una forma statale equilibrata, tale da prevenire le tendenze degenerative. La costituzione mista si realizza nel modo più compiuto nello stato romano, dove l’elemento monarchico si rispecchia nel consolato, l’elemento aristocratico nel senato, e quello democratico nei comizi popolari.
"Storicismo” di Cicerone"
Si nota qui una divergenza fondamentale dalla ‘Repubblica’ di Platone, che pure ha fornito lo spunto all’elaborazione dell’opera: Cicerone non pensa a uno stato “ideale”, costruito in base a un modello teorico; secondo una visione di tipo “storicistico”, lo stato che più si avvicina all’ideale è identico alla ‘res publica’ romana, che ha raggiunto la sua compiutezza attraverso secoli di lenta formazione.
Tendenza conservatrice della dottrina della costituzione mista
In realtà, nell’analisi ciceroniana la tripartizione dei poteri si risolve in una più fondamentale bipartizione, tra elemento aristocratico (senato e consoli insieme) e elemento democratico; a un’interpretazione largamente estensiva dell’autorità del senato, Cicerone ne affianca una altrettanto limitativa dei poteri del popolo. Ciò mostra come la dottrina della costituzione mista ubbidisca in sostanza a una tendenza conservatrice: il mantenimento dei vigenti rapporti di potere e di proprietà, e la contemporanea garanzia, per i ceti inferiori, di una voce più o meno nominale negli affari politici.
L’uomo politico ideale: il ‘princeps’
Nel ‘De re public’a l’uomo politico ideale si configura come un arbitro delle divergenze interne al corpo sociale: a questa figura di statista veniva attribuito il nome di ‘princeps’ (“leader politico”) o di “timoniere dello stato”; l’uso del termine al singolare non presuppone affatto che il governo dello stato debba essere affidato a una sola persona (Cicerone non prefigura esiti di tipo “augusteo”), ma designa piuttosto un “tipo” ideale (come nel titolo ‘De oratore’), cui i membri di spicco della classe dirigente devono conformarsi.
L’educazione e la formazione del ‘princeps’ erano trattate in sezioni del dialogo delle quali restano solo scarsi frammenti. Emerge l’immagine di un personaggio animato da un giusto desiderio di gloria (che lo spinge all’impegno e alla fatica), cui si affianca tuttavia l’ascetico disprezzo di ogni vantaggio personale (che gli impedisce di anteporre il proprio interesse a quello dello stato): un modello di uomo politico la cui la capacità di governo è fecondata da una ricca e profonda meditazione filosofica.
Giustificazione dell’imperialismo romano
I protagonisti del ‘De re public’a si impegnano, tra l’altro, in un’approfondita discussione sulla giustizia del dominio romano sugli altri popoli. L’imperialismo romano è pienamente giustificato in quanto apportatore di regole di civiltà a popolazioni di per sé incapaci di autogoverno; di conseguenza vengono sottoposti a una dura confutazione gli argomenti con i quali il filosofo greco Carneade, in conferenze rimaste famose, aveva indicato nella sete di rapina la ragione fondamentale dell’espansione di Roma.
Il ‘Somnium Scipionis’
La ‘Repubblica’ di Platone si chiudeva col mito del soldato caduto in guerra che, tornato in vita, raccontava quanto aveva visto nel mondo dei morti. Ricercando un superiore effetto di verosimiglianza, il ‘De re publica’ di Cicerone si conclude non con un mito, ma col racconto di un sogno dell’Emiliano, in cui l’avo adottivo, Scipione Africano, gli era parso condurlo in cielo, per mostrargli di là la piccolezza e l’insignificanza delle cose umane, compresa la gloria terrena, e rivelargli tuttavia come ai grandi uomini di stato, benefattori della patria, fosse riservata l’immortalità e una perpetua dimora celeste. Si tratta di un “pezzo” letterario elevatissimo per capacità visionaria. L’insistenza sulla precarietà delle cose terrene ha la funzione di svuotare l’animo dell’uomo politico da ogni
ambizione e brama personale, per trasformare la sua attività in un servizio nei confronti della comunità, e della divinità che gli impone questa missione. La promessa di immortalità, alimentata da suggestioni filosofiche diverse, intende offrire all’uomo politico un sostegno tale da farlo perseverare nella sua azione anche di fronte all’incomprensione o all’ostilità dei contemporanei, e insieme risarcirlo di un’esistenza interamente alienata nell’ossequio al dovere.
Il dialogo ‘De legibus’
Cicerone lasciò incompiuto il dialogo ‘De legibus’ (a noi restano i primi due libri e parte del terzo), che doveva affiancarsi al ‘De re publica’ come le ‘Leggi’ alla ‘Repubblica’ di Platone. Muovendo da problemi di filosofia del diritto, Cicerone in pratica emanava un suo codice di leggi per lo stato romano, di stampo sostanzialmente conservatore e tradizionalistico. Egli suggeriva l’accrescimento dei poteri del senato, ma il suo “moderatismo” lo spingeva a cercare di “addomesticare” il popolo, evitando lo scontro frontale.
4. LE OPERE FILOSOFICHE
Filosofia e rinnovamento sociale
Cicerone compose le sue opere filosofiche nel periodo di forzato ritiro sotto la dittatura di Cesare, con l’intento di far conoscere ai Romani i contenuti del pensiero filosofico greco; ai suoi occhi la rigenerazione etico-politica della ‘res publica’ richiedeva che la cultura filosofica — la quale comportava, tra l’altro, una riflessione sui valori che erano alla base della convivenza sociale — divenisse elemento costitutivo della educazione dei gruppi dirigenti di Roma e dell’Italia.
Il ‘corpus’ delle opere filosofiche
Forniamo qui l’elenco delle opere filosofiche di Cicerone; in seguito daremo una breve caratterizzazione solo di alcune tra le più significative. Dopo i ‘Paradoxa Stoicorum’, del 46 (che hanno più che altro il carattere di un’esercitazione retorica), tra il 45 e il 44 compaiono, nell’ordine, la ‘Consolatio’ per la morte della figlia Tullia, un dialogo di esortazione alla filosofia, l’ ‘Hortensius’ (di ambedue non restano che frammenti), gli ‘Academica’ (“Dispute accademiche”, sulla teoria della conoscenza), il ‘De finibus bonorum et malorum’ — “Il sommo bene e il sommo male” —e le ‘Tusculanae disputationes’ (ambedue sui problemi della filosofia morale), il ‘De natura deorum’, il ‘Cato Maior de senectut’e (sul ruolo degli anziani nella società romana), il ‘De divinatione’ (critica delle pratiche divinatorie e delle varie forme di superstizione diffuse nella società romana), il ‘De fato’, il ‘Laelius de amiciti’a (sul contrasto tra l’amicizia disinteressata e l’amicizia come forma di partigianeria politica), un perduto ‘De gloria’, e infine il De officiis’ (“Sui doveri”), composto nel pieno della lotta contro Antonio.
Originalità di Cicerone
Le opere filosofiche di Cicerone dipendono largamente dalla produzione di pensatori greci, ma hanno un taglio profondamente originale soprattutto per ciò che riguarda l’adattamento del pensiero greco alla situazione romana: a buon diritto egli poteva vantarsi di avere dato alla sua patria, dopo un’eloquenza in grado di reggere il confronto con i massimi modelli greci, una letteratura filosofica in forma artistica.
Forma letteraria delle opere filosofiche
Per l’esposizione e il confronto delle diverse dottrine filosofiche, Cicerone seppe infatti trovare una forma letteraria capace di interessare un pubblico relativamente vasto, e che non avesse come esclusivi destinatari i professionisti della filosofia — una forma dialogica accattivante, per cui egli si rifaceva alla tradizione accademica e peripatetica —; perciò egli insiste moltissimo sulla necessità del legame tra filosofia ed eloquenza elegante e persuasiva.
Un nuovo modello di filosofo
In precedenza, a Roma la filosofia era appannaggio pressoché esclusivo di insegnanti greci, il cui status sociale era in genere poco elevato. Del tutto nuovo è il tipo di impegno filosofico realizzato per la prima volta da Cicerone: quello del cittadino eminente per cui la filosofia non è una “professione”, un settore esclusivo di attività, ma uno degli ingredienti di una vita spesa al servizio dello stato. Si comprende così che anche i personaggi chiamati a discutere nei dialoghi ciceroniani non siano filosofi di professione, ma Romani dei ceti elevati: ciò permette di mettere in rilievo il legame tra filosofia e impegno civile.
La filosofia neoaccademica: scetticismo e libera ricerca
Per orientarsi tra le diverse posizioni filosofiche in conflitto, Cicerone si rivolse allo scetticismo della Nuova Accademia, una delle filiazioni della scuola platonica; uno scetticismo che egli presenta come cosa ben diversa da un incerto vagolare tra le opinioni: si tratta piuttosto di impostare una ricerca aperta, libera da preclusioni, tesa a fare emergere, dal confronto tra le diverse posizioni, i criteri di una morale aliena da certezze assolute e da un anacronistico rigorismo, ma sufficiente a orientare correttamente l’azione (è il cosiddetto “probabilismo”: la ricerca non del vero, che è inattingibile, ma di quanto appare maggiormente probabile e verosimile).
Oscillazioni e ondeggiamenti nella ricerca filosofica di Cicerone
Del tutto alieno dallo spirito di sistema, Cicerone rivendica la legittimità di modificare di volta in volta le proprie opinioni: la sua produzione filosofica documenta le tappe e gli ondeggiamenti di questa ricerca.
Soprattutto quando in lui prevalgono le esigenze di consolazione e di conforto (come nelle ‘Tusculanae’), oppure quando avverte più acutamente la necessità di dare nuovo e più credibile fondamento ai valori tradizionali (come nel ‘De officiis’ e in parte nel ‘De finibus’), Cicerone si sforza di superare una critica puramente “corrosiva”, per orientare la sua ricerca verso uno sbocco positivo: sostanzialmente la commistione di un generico platonismo con uno stoicismo indebolito nelle pretese dogmatiche ma ritenuto, per la sublimità della sua visione dell’ordine del cosmo e per la nobiltà degli atteggiamenti che promuove, una guida rigorosa e seducente alla rettitudine del comportamento.
Il ‘De finibus bonorum et malorum’
Nel ‘De finibus bonorum et malorum’ la demolizione delle pretese dei sistemi filosofici contrapposti permette tuttavia di stabilire tra essi una gerarchia. L’epicureismo viene ripudiato con decisione, per il suo edonismo materialistico e perché si fa promotore di un atteggiamento di astensione dall’impegno nella vita pubblica; dello stoicismo vengono criticati il dogmatismo, l’esasperato rigorismo morale, la pretesa della radicale indifferenza del saggio rispetto a tutte le contingenze esterne (come la malattia o la salute, la libertà o l’asservimento della patria); ma viene anche sottolineata la nobiltà con la quale la dottrina stoica identifica il bene supremo con la virtù. Non sembrano soddisfare totalmente Cicerone nemmeno altre correnti di pensiero, che tentavano di conciliare l’intransigenza morale degli stoici con la maggiore apertura umana della filosofia accademica e peripatetica.
Le ‘Tusculanae disputationes’
Dopo l’inquadramento teorico della problematica morale fornito nel ‘De finibus’, le ‘Tusculanae’ si occupano di questioni di etica pratica: il modo di fortificare la personalità di fronte al timore della morte e del dolore, e di fronte all’assalto delle passioni. Le ‘Tusculanae’ rispecchiano uno stato d’animo profondamente angosciato, e bisognoso di consolazioni d’ogni sorta (Cicerone soffriva sia per la recente scomparsa della figlia, sia per l’oppressione della dittatura); proprio la forza dell’anelito consolatorio indirizza la ricerca, ben più che in altre opere (per es. nel ‘De divinatione’, dove è fortissimo l’afflato dello scetticismo “illuministico”), verso esiti “affermativi” che ben poco conservano delle originarie istanze critiche del metodo neoaccademico.
Il bisogno di consolazione nelle ‘Tusculanae’
Dominato dal disgusto per una vita piena di sofferenze, Cicerone si muove tra il bisogno di immortalità, che lo spinge verso una vaga religiosità di tipo platonizzante, e la considerazione che anche la prospettiva del totale annientamento non esime dal disprezzo per la morte e dall’amore per la virtù. Nonostante vengano mantenute ferme alcune ragioni fondamentali di dissenso, la convinzione della necessità dell’assoluto dominio delle passioni da parte della ragione avvicina Cicerone al rigorismo stoico quanto lo allontana dalla sua più consueta simpatia per l’ampia, umana tolleranza dei peripatetici. Egli ora sembra infatti accettare la tesi secondo cui l’animo è indifferente alle cose esterne. La svalutazione dell’esistenza in ogni suo aspetto sbocca nell’elogio di una sapienza che, trincerata in se stessa nell’attesa della liberazione della morte, sola sa sollevarsi al di sopra delle bassezze e dell’infelicità della condizione umana.
Il ‘De officiis’: una morale per la società romana
L’ultima delle opere filosofiche di Cicerone, il ‘De officiis’, non è un dialogo, ma un trattato indirizzato alla formazione etico-politica della gioventù e alla costruzione di un modello di comportamento, pubblico e privato, per i futuri membri della classe dirigente. Cicerone pose a fondamento del ‘De officiis’ lo stoicismo riformato, più aperto e “mondano”, di Panezio, che rispondeva al suo bisogno di dare nuova fondazione ai valori tradizionali, di addolcirne l’intransigenza senza sottoporli a una critica dissolutoria. Il ‘De officiis’ è un’opera per certi aspetti bifronte: per quanto largamente aperto ai problemi di una società moderna, e a un notevole pluralismo dei modelli di vita, per altri versi il trattato si rivela profondamente intollerante, dominato dalla radicale chiusura ai ceti meno abbienti e dalla riproposizione in toni autoritari dei princìpi etico-politici dell’antica ‘res publica’ aristocratica. Durissima è la polemica contro il morto Cesare, presentato ai ceti possidenti come un tiranno eversore, avido di confische e di rapina.
5. L'ARTE ESPRESSIVA DI CERONE COME PROSATORE
I procedimenti del periodo ciceroniano
Come abbiamo già accennato, Cicerone privilegiava, nell’eloquenza, uno stile capace di esercitare un forte impatto emotivo sugli ascoltatori. A questa intenzione va ricondotta la sua “magniloquenza”, criticata dagli atticisti, e che si esprime, prima ancora che nel ricorso alla ‘copia verborum’ (“abbondanza di parole”, che spesso significa ridondanza espressiva al fine di ribadire un concetto) e alla ‘amplificatio’ (la “dilatazione” di un concetto, al fine di farlo apparire più grandioso, maestoso, o spaventoso), nella sapiente costruzione del periodo prosastico, che nella letteratura latina è essenzialmente una innovazione ciceroniana. Ispirandosi soprattutto ai modelli di grandi oratori greci come Isocrate e Demostene, Cicerone eliminò la paratassi (“coordinazione”) tipica della prosa arcaica a favore della ipotassi (“subordinazione”), e costruì un periodo ampio e armonioso, basato sull’equilibrio e sulla rispondenza delle parti.
Creazione di un lessico filosofico latino
Nella prosa retorica e filosofica Cicerone sfruttò ampiamente lo stile che aveva elaborato per l’eloquenza. Ma, particolarmente nella filosofia, egli dové cimentarsi anche con la povertà espressiva del latino, di per sé inadatto a rendere adeguatamente molti termini e concetti del lessico intellettuale greco. Per la traduzione dei termini greci Cicerone si impegnò in un’accanita sperimentazione, che ebbe come risultato l’introduzione nel latino di molti neologismi che sarebbero divenuti patrimonio della tradizione intellettuale europea (come ‘qualitas’, ‘quantitas’, ‘essentia’, e così via).
6. LE OPERE POETICHE
Gli interessi poetici occupano, nel quadro della complessiva produzione di Cicerone, uno spazio ridotto ma non insignificante. In gioventù, compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico e tradusse in latino i ‘Fenomeni’, il poema di didascalica meteorologica del poeta ellenistico Arato; successivamente tradusse anche la seconda sezione del poema di Arato, i Pronostici (della traduzione, condotta con un gusto sostanzialmente enniano che però non si preclude sporadiche raffinatezze “preneoteriche”, restano porzioni di una certa estensione). Dalla sua esperienza di uomo politico, Cicerone si sentì tuttavia spinto soprattutto verso l’epica di argomento nazionale: compose, sempre in stile enniano, un poema sul proprio consolato e sulla lotta contro Catilina, i cui resti lasciano intravedere barocchismo e ridondanza stilistica, e uno sulle gesta di Gaio Mario.
7. L'EPISTOLARIO
Di Cicerone ci sono pervenute numerosissime lettere, suddivise in diverse raccolte: ‘Epistulae ad Atticum’ (a Tito Pomponio Attico, l’amico di tutta la vita, in 16 libri); ‘Epistulae ad familiares’(amici, parenti, personaggi coi quali Cicerone intratteneva relazioni, in 16 libri); 3 libri di ‘Epistulae ad Quintum fratrem’ e 2 libri (il secondo di autenticità controversa) di ‘Epistulae ad Marcum Brutum’. Si tratta di un epistolario estremamente ricco e vario; accanto ai bigliettini buttati giù in tutta fretta, abbiamo i resoconti vivaci della vita politica, e anche le epistole elaborate fino ad attingere la dignità letteraria di veri e propri trattati.
Documento storico e psicologico
Permettendo a volte di seguire quasi quotidianamente l’evolversi degli avvenimenti politici, l’epistolario ciceroniano ha un valore storico eccezionale; per il fatto di nascere in buona parte da esigenze di comunicazione privata e personale, esso ci rivela anche gli aspetti più intimi e segreti della personalità di Cicerone, nella loro maggiore o minore nobiltà. Di nessun altro personaggio del mondo antico conosciamo così a fondo la psicologia, anche nelle pieghe più riposte.
Arpino, dove Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a. Chr.n., godeva ormai da tempo della cittadinanza romana a pieno titolo. Continuava a servirsi del voto orale, pronunciato a voce, laddove Roma da tempo si avvaleva del voto scritto, il quale almeno in teoria garantiva la segretezza dei suffragi. In un sistema clientelare, il voto orale permetteva, naturalmente, l'esercizio di pressioni di ogni genere sugli elettori. Proprio il nonno di Cicerone fu a suo tempo, nella municipalità di Arpino, il più tenace organizzatore della resistenza alla proposta popolare di introdurre il voto segreto su scheda: ciò gli valse gli elogi di membri influenti dell'aristocrazia della capitale, e forse una promessa di sostegno, qualora avesse desiderato intraprendere una carriera politica a Roma. Nel ‘De legibus’ Cicerone ricorderà con orgoglio queste glorie della sua famiglia. I genitori erano di condizione economica e sociale più che discreta: il padre apparteneva all'ordine equestre, e la madre veniva da una famiglia che aveva già dato a Roma dei senatori. In più di un senso, la successiva ascesa sociale di Cicerone fu preparata dai legami che membri della sua famiglia - rappresentanti conservatori di una ‘piccola nobiltà’ di provincia con spiccato senso delle proprie prerogative di ceto - intrattenevano con alcune grandi casate romane.
L’asianesimo giovanile
Cicerone si trasferì prestissimo a Roma, per compiervi gli studi. Già negli anni giovanili intraprese un’intensa attività di patronato processuale, che gli valse notorietà ed importanti legami. Lo stile dei suoi primi discorsi dimostra un’artificiosità che risente ancora moltissimo della maniera “asiana” di Ortensio Ortalo, il più importante oratore della generazione precedente. Del suo influsso Cicerone incominciò a liberarsi solo dopo un lungo viaggio di studio in Grecia e in Asia Minore, compiuto tra il 79 e il 77. Nel 76 Cicerone fu questore in Sicilia, conquistandosi fama di amministratore onesto e scrupoloso. Alcuni anni dopo, nel 70, i Siciliani si rivolsero a lui per chiedergli di assumere il loro patrocinio nella causa da essi intentata contro l’ex governatore Verre, il quale si era dimostrato di una rapacità e di una crudeltà incredibili.
IL PROCESSO DI VERRE
La ‘Actio prima in Verrem’
Accusando Verre, Cicerone si confrontava direttamente con Ortensio Ortalo, che ne aveva assunto la difesa e che, insieme agli altri potenti sostenitori del suo cliente, cercò di ritardare lo svolgersi del dibattimento fino all’anno successivo: nel 69 Ortensio sarebbe entrato in carica come console, e avrebbe potuto influenzare più favorevolmente l’esito del processo. Cicerone bruciò i tempi attraverso una rapidissima istruttoria in Sicilia, e alla prima seduta, nell’agosto del 70, tenne una requisitoria assai breve, per quanto patetica e sconvolgente (‘Actio prima in Verrem’), passando quasi immediatamente all’interrogatorio dei moltissimi testimoni a carico. Questa tattica processuale innovativa colse Ortensio del tutto alla sprovvista, e Verre fu costretto a fuggire in esilio per scampare all’inevitabile condanna.
La ‘Actio secunda in Verrem’: cinque discorsi fittizi
La necessità di forzare i tempi aveva costretto Cicerone a rinunciare a dispiegare pienamente le potenzialità del suo nuovo stile oratorio. Per mostrare quale avrebbe potuto essere la sua eloquenza, se il processo si fosse svolto secondo la procedura abituale e anche per divulgare un pamphlet teso a conquistargli simpatie nei più diversi strati della società, qualche tempo dopo egli pubblicò, in forma di arringa accusatoria suddivisa in cinque “discorsi” fittizi, il lunghissimo dossier sulle malefatte compiute da Verre nella sua carriera di amministratore (‘Actio secunda in Verrem’).
Stile delle ‘Verrinae’
In queste orazioni mai effettivamente tenute, Cicerone si sforzò di conservare l’andamento spontaneo, le movenze, le intonazioni e le inflessioni della parola vivente. La vittoria su Ortensio significò anche il trionfo di un nuovo stile oratorio, che quasi più niente concedeva al manierismo istrionesco. Del gusto asiano Cicerone mantiene un certo compiacimento per l’accumulazione e l’amplificazione a fini espressivi; ma le ‘Verrinae’ (così si definisce il complesso delle orazioni contro Verre) limitano drasticamente la ricerca di effetti facili e stucchevoli, e sono caratterizzate da un periodare armonioso e complesso, la cui architettura desta un’impressione di gravità solenne. Cicerone tiene grande conto delle esigenze dell’orecchio e del ritmo, ma sa infondere ai suoi periodi vita ed energia superiori a quelle di alcuni tra i suoi grandi modelli greci. La narrazione è ricca dei colori e dei toni più vari, e spazia agilmente tra i più diversi registri dello stile; particolarmente notevoli sono i quadri di satira graffiante, in cui Cicerone ritrae Verre e i membri del suo entourage.
IL CONSOLATO E LA LOTTA CONTRO CATILINA
Proseguendo con regolarità la carriera politica e forense, Cicerone arrivò a ricoprire il consolato nel 63 a. Chr.n. . Era la prima volta da molto tempo che un ‘homo novus’ come lui - cioè un personaggio privo di importanti tradizioni politiche familiari - riusciva ad arrivare così in alto. Il suo successo fu dovuto soprattutto al fatto che, in presenza di gravissime tensioni politiche e sociali, la nobiltà individuò in lui un candidato capace di sottrarre ai ‘populares’ una parte dell’elettorato, e fece pertanto confluire su di lui tutti i voti che era in grado di mobilitare.
Le orazioni ‘Catilinariae’
Nell’anno del consolato Cicerone denunciò e represse il tentativo rivoluzionario messo in atto da un nobile spiantato e avventuriero, Lucio Sergio Catilina, che era riuscito a organizzare il malcontento e la disperazione di strati sociali diseredati. Le quattro orazioni ‘Catilinariae’, tenute di fronte sia al Senato sia al popolo, documentano la lotta di Cicerone contro la sovversione nei termini di un’eloquenza spesso accesa e veemente, ma non aliena da spunti più razionali di analisi “sociologica” del quadro delle forze sociali in campo. Cicerone ottenne dal Senato la condanna a morte, senza processo, dei complici di Catilina, che era riuscito a fare arrestare. Di lì a pochi anni, questa decisione gli sarebbe costata l’esilio.
IL DECLINO POLITO E L'ESILIO
La linea politica perseguita da Cicerone durante il consolato prevedeva un’alleanza di aristocrazia e ordine equestre, allo scopo di porre un argine alle tendenze sovversive che serpeggiavano nella società. Nonostante la chiusura alle esigenze degli strati più disagiati, il progetto ciceroniano non era semplicemente “reazionario”; la sua più importante novità stava nel tentativo di rispondere alle esigenze di un blocco sociale composito e variegato, ancora alla ricerca di una coscienza politica unitaria: la “gente perbene”, ossia in sostanza i ceti possidenti di tutta l’Italia. La necessità di consolidare e orientare questo blocco sociale significava di per sé un superamento degli obiettivi tradizionali della politica romana, per lo più prigioniera di una lotta di fazioni e di cricche clientelari.
Gli elementi centrali della coalizione auspicata da Cicerone, l’ordine senatorio e l’ordine equestre, restavano tuttavia divisi da conflitti politici e di interesse, destinati a rinfocolarsi, una volta passata la necessità di fare fronte comune contro il pericolo catilinario. Intanto andava delineandosi la supremazia dei grandi “potentati”, Cesare, Pompeo e Crasso, che nel 60 si sarebbero uniti nel cosiddetto «primo triumvirato», accordo segreto in vista della spartizione del potere. Cicerone vide rapidamente sgretolarsi il consenso intorno alla propria linea politica, e divenne oggetto di attacchi ripetuti, concentrati soprattutto sull’esecuzione sommaria dei complici di Catilina. Nel 58 Publio Clodio - un tribuno che rivelò formidabili capacità nell’agitazione demagogica del proletariato urbano e nella sua organizzazione in vere e proprie bande armate, fino a gettare Roma in uno stato di anarchia - riuscì a far condannare Cicerone all’esilio.
LA NUOVA POLITICA DI CICERONE
Eloquenza nutrita di filosofia
Richiamato a Roma nel 57 grazie allo schiarirsi della situazione politica, Cicerone fornì negli interventi del periodo successivo una nuova versione del suo progetto politico, e una rilettura delle proprie esperienze alla luce di una meditazione filosofica, che da allora in poi lasciò tracce importantissime nella sua eloquenza.
L'orazione ‘De domo sua’
Così nella ‘De domo sua’ (57 a. Chr.n.) - il discorso tenuto di fronte al collegio dei pontefici per rientrare in possesso dell’area dove sorgeva la sua casa, che Clodio aveva fatto demolire per edificare al suo posto un tempietto di ‘Libertas’ - Cicerone polemizza con quanti avevano criticato la scarsa fermezza d’animo che egli avrebbe mostrato durante il suo esilio. Proprio la grandezza della sofferenza che aveva provato, dava la misura del suo sacrificio in favore della patria; e quella sofferenza, spiega l’oratore, lo aveva reso consapevole dell’impossibilità di affrontare le privazioni conseguenti alla calamità dell’esilio con una saggezza di tipo stoico; perciò Cicerone rivendica, contro la “indifferenza al dolore” propagandata dagli stoici, l’opportunità di lasciarsi guidare, nelle proprie reazioni, da un “senso comune” che non può giudicare “indifferente” quanto di bene o di male può capitare nella vita (il concetto veniva dalla polemica accademico-peripatetica, cioè dei seguaci di Platone e di Aristotele, contro i paradossi dell’etica stoica).
La ‘Pro Sestio’: il nuovo programma politico di Cicerone
Tra le orazioni di questo periodo spicca - in quanto vero e proprio “manifesto” del nuovo programma politico di Cicerone — la ‘Pro Sestio’ (56 a. Chr.n.), difesa di un personaggio che veniva citato in giudizio dai partigiani di Clodio per gli episodi di violenza connessi con la sua attività in favore del richiamo di Cicerone. In questo discorso si mostra al suo meglio una della peculiarità più caratteristiche dell’eloquenza di Cicerone, la capacità di inquadrare il singolo caso in dibattimento in un contesto politico, sociale e culturale assi più vasto e generale. L’oratore rintraccia una perpetua divisione del corpo cittadino tra sostenitori dell’ordine costituito e della fedeltà alla funzione direttiva del senato, e fautori del disordine, della sommossa, della sedizione. Egli si sforza di indicare ai giovani desiderosi di intraprendere la carriera politica un altissimo ideale di servizio verso lo stato, fondato sulla ricerca di una “vera gloria” (un altro concetto di derivazione filosofica), del tutto indipendente dal momentaneo successo che deriva dalla compiacenza verso i “capricci” del popolo. I leaders della gente “perbene” hanno il compito di garantire l’ordine e la tranquillità sociale reprimendo ogni conato sedizioso; essi sono chiamati a interpretare e a dirigere la volontà di un’opinione pubblica rappresentata, in tutta l’Italia, da quanti, indipendentemente dalla loro collocazione nella gerarchia sociale, godono di buona salute economica e morale, ed avversano pertanto la sovversione; un’opinione pubblica di fronte alla quale i leaders politici sono fatti responsabili delle loro scelte: il governo dell’aristocrazia trova così una giustificazione che va al di là della consuetudine autoritaria all’esercizio del potere.
La ‘Pro Caelio’ e la questione giovanile
Meno di un mese dopo la ‘Pro Sestio’ Cicerone tornò a occuparsi dell’educazione dei giovani nella ‘Pro Caelio’, la difesa di un suo vecchio allievo nell’eloquenza, ora accusato di atti di violenza politica. Fino a poco prima Celio era stato l’amante di Clodia, sorella del tribuno (probabilmente la “Lesbia” di Catullo), la quale sembra intendesse presentarsi in tribunale per aggiungere ai già pesantissimi capi di imputazione contro Celio quello di avere tentato di avvelenarla.
La ‘Pro Caelio’ è una delle orazioni più divertenti e brillanti di Cicerone, senz’altro uno dei suoi capolavori. Nell’intento di pilotare i giudici attraverso gli stati d’animo più diversi, Cicerone si avvale di una pittoresca alternanza di toni e di registri, che lascia emergere di preferenza la vena brillante, ironica, talora apertamente comica.
Umorismo e comicità nella ‘Pro Caelio’
Clodia è ridicolizzata come un’innamorata respinta, indotta esclusivamente dalla gelosia a farsi l’unica regista delle manovre contro Celio. L’oratore fa dei costumi sessuali notoriamente liberi di Clodia l’oggetto dell’ilarità degli ascoltatori, mentre dipinge il suo cliente come un giovane morigerato, solo momentaneamente traviato dalle arti di una donnaccia; e di qui prende lo spunto per formulare, tra il serio e il faceto, l’ideale di un’educazione tollerante nei confronti dei piccoli capricci, o delle momentanee deviazioni morali e politiche di tanti giovani della Roma contemporanea.
Una nuova educazione
Al di là del tono brillante e mondano, la ricerca di un’etica lontana dal rigore arcaico, più adeguata a una società ormai ricca e agiata, corrisponde a un’esigenza costante da parte di Cicerone. Nella ‘Pro Caelio’ egli ha inteso tra l’altro rendere in qualche modo più “umano” e più praticabile l’alto ideale di servizio verso lo stato già additato ai giovani nella ‘Pro Sestio’: alla buona causa sono recuperabili anche giovani che l’ardore dell’età e l’esuberanza del talento hanno spinto ad avventurarsi lungo strade poco raccomandabili
IL PROCESSO DI MILONE E LA GUERRA CIVILE
Negli anni successivi Cicerone fu spesso costretto, con fortissime pressioni, a farsi portavoce delle esigenze politiche dei triumviri, e a difendere vari personaggi a loro legati. A Roma continuavano intanto a imperversare le bande armate di Clodio, cui si opponevano quelle arruolate da Milone, un fautore del Senato. Clodio rimase ucciso in uno scontro avvenuto nella campagna romana, nel gennaio del 52. La rabbia della plebe urbana esplose con una violenza senza precedenti.
‘Pro Milone’: discorso reale e discorso fittizio
Cicerone, che difese Milone in una situazione di fortissima tensione, ebbe un cedimento di nervi, e pronunciò uno dei suoi discorsi più fiacchi; il suo cliente venne condannato, e dové fuggire in esilio. Ma la ‘Pro Milone’ che noi possediamo non è lo scialbo discorso che Cicerone pronunciò in quell’occasione; è frutto, invece, di una rielaborazione successiva: si tratta di un vero capolavoro, che combina in maniera magistrale la scaltrezza dell’avvocato e il soffio possente del grande oratore.
Cicerone nella guerra civile
Allo scoppio della guerra civile, nel 49, Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa del Senato e di Pompeo; dopo la vittoria di Cesare, si tenne per lo più in disparte dalla vita politica, cercando tuttavia di rendere il regime meno autoritario: per questo perorò di fronte al dittatore le cause di alcuni personaggi che avevano combattuto al fianco di Pompeo.
LA LOTTA CONTRO ANTONIO
Negli anni della dittatura di Cesare le amarezze politiche si accompagnarono per Cicerone ai dolori personali: il più grave fu la perdita della figlia Tullia. Nel 44 salutò con giubilo l’uccisione di Cesare; ma nuovi pericoli per la ‘res publica’ si profilarono quando Antonio, il più stretto collaboratore del dittatore, mostrò chiaramente di volerne assumere l’eredità. Intanto entrava in scena un nuovo personaggio, il giovanissimo Ottaviano, l’erede per adozione di Cesare, con un esercito ai propri comandi. Cicerone assunse di nuovo un ruolo politico di primo piano; egli intendeva evitare la saldatura tra i potentati di Ottaviano e di Antonio, facendo del primo un sostenitore del senato.
Le orazioni ‘Philippicae’
Per indurre il Senato a dichiarare guerra ad Antonio, Cicerone pronunciò, a partire dell’estate del 44, una serie di orazioni politiche, le ‘Philippicae’ (il titolo, che risale a una definizione scherzosa dello stesso Cicerone, intendeva sottolineare il legame ideale con i celebri discorsi nei quali Demostene, il più grande oratore ateniese del IV sec. a. Chr.n., aveva combattuto le pretese all’egemonia di Filippo di Macedonia). Uno solo dei discorsi, il secondo, un attacco di violenza inaudita, non venne effettivamente pronunciato, ma fatto circolare come pamphlet.
Nelle ‘Philippicae’ Antonio è dipinto come un volgare bandito, programmatore di proscrizioni e di confische. Con sapiente varietà i vivacissimi quadri satirici di Antonio e del suo seguito di miserabili figuri, assetati del sangue della gente perbene e rapacemente incombenti sui loro patrimoni, sono alternati con i toni appassionati e magniloquenti. Cicerone ribadisce spesso come una morte gloriosa sia preferibile alla schiavitù, che si cela sotto l’apparenza della pace. Cariche di tematiche filosofiche, di trattazioni sulla “vera gloria” e su una ‘virtus’ che costituisce l’unico elemento saldo nell’incerta mutevolezza di ogni cosa, queste orazioni traducono sul terreno di una pubblicistica contingente il codice etico di un’aristocrazia ormai giunta al termine della sua parabola storica. Le ‘Philippicae’ costituiscono anche un tentativo assai ardito di influenzare l’opinione pubblica: diffusi probabilmente l’uno di seguito all’altro, i testi di questi discorsi lanciavano in tutto il mondo romano dei programmi che fissavano di volta in volta l’obiettivo da raggiungere nella lotta contro Antonio.
Morte di Cicerone
Dopo aver dato l’illusione di voler collaborare con il senato e con i cesaricidi, Ottaviano si alleò tuttavia con Antonio e con un altro capo cesariano, Lepido, instaurando una nuova dittatura (secondo triumvirato): Cicerone venne ucciso nel dicembre del 43 a. Chr.n. .
Il senso di un'esperienza politica e intellettuale
La determinazione con la quale si era lanciato nella sua ultima battaglia politica era stata senza dubbio rafforzata dalla meditazione filosofica. Nel periodo tra l’esilio e la morte egli aveva infatti affrontato il compito grandioso e nuovo dell’ammodernamento del pensiero politico e della morale romana. Nella funzione che egli aveva attribuito alla cultura per la salvezza dalla crisi dello stato, vi era forse una sopravvalutazione del ruolo storico dell’intellettuale, ma anche la nobilissima aspirazione a non anteporre l’egoismo, il cinismo e il culto della forza alla civiltà del confronto politico.
2. LE OPERE RETORICHE
ELOQUENZA E FILOSOFIA NEL ‘DE ORATORE’
Il ‘De oratore’, composto nel 55 a.Chr.n., è un dialogo in tre libri: un dibattito sulla natura e la funzione dell’eloquenza, ambientato nel 91 a.Chr.n., al quale Cicerone immagina prendano parte i più insigni oratori dei tempi della sua giovinezza, tra i quali Antonio e Crasso.
Forma letteraria del De oratore
La forma letteraria del ‘De oratore’ (esemplata sui dialoghi di Platone e di Aristotele)costituisce una novità assoluta nella cultura romana: i precetti della retorica non sono esposti in maniera sistematica e didascalica, ma in un dialogo che ha l’andamento ondeggiante della conversazione reale; e l’aridità dei manuali è superata facendo delle scelte retoriche un’espressione della personalità dell’oratore, fondata in primo luogo su una prodigiosa esperienza del foro e dei tribunali romani.
Funzione dei personaggi di Antonio e Crasso
Pur dividendo tra Antonio e Crasso le diverse sfumature delle sue opinioni, Cicerone affida soprattutto al secondo il compito di farsi portavoce dell’ideale di un oratore nutrito di cultura vastissima, che abbracci la letteratura, la storia, la filosofia, la giurisprudenza, ed elementi delle discipline più disparate. L’insistenza di Crasso sui valori che devono essere alla base della formazione dell’oratore gli permette di conferire all’eloquenza una dimensione pienamente civile e politica. Antonio, viceversa, privilegia nell’eloquenza gli aspetti, moralmente “neutrali”, che ne fanno un formidabile strumento di vittoriosa persuasione, indipendentemente dalla qualità etica e politica dei fini. Egli insiste moltissimo sulla necessità di concitare nell’uditorio le emozioni più violente, al fine di sbaragliarne le difese razionali (un punto che stava a cuore a Cicerone, il quale faceva del ‘pathos’ uno dei punti di forza della propria oratoria). Perciò Antonio non è niente di più di un grandissimo avvocato: in lui Cicerone sembra quasi raffigurare questo aspetto, niente affatto trascurabile, della propria stessa personalità.
L’oratore ideale
L’oratore ideale che Crasso dipinge combacia largamente con l’ideale di uomo politico che Cicerone raffigurerà nel ‘De re publica’. Al fine di poter incidere con la forza della parola in ogni settore dell’esperienza umana, all’oratore è richiesta - oltre alla piena padronanza delle tecniche retoriche della persuasione - una vastissima cultura generale, al cui interno un ruolo privilegiato è attribuito alla filosofia morale: insegnando a leggere nei cuori, questa si rivela della massima utilità per agire con efficacia sull’animo degli ascoltatori, ma è anche un mezzo per educare l’oratore al rispetto dei valori sui quali poggia la ‘res publica’.
La concezione dell’unità della cultura
La concezione ciceroniana dell’unità della cultura risponde anche alla preoccupazione di mantenere unite le forme di sapere che concorrono al rafforzamento del potere dell’aristocrazia. Per custodire, con la propria autorevolezza, le istituzioni e le tradizioni, l’oratore deve essere insieme filosofo, giurista e uomo di stato. Così Cicerone fonda la supremazia dell’oratore - prima che sul suo rango sociale o sulla vastità delle clientele - sull’autorità morale e politica, sulla vasta formazione culturale che si traduce in una superiore capacità di valutazione dei comportamenti. Ma altrettanto importante è l’intento di affermare la dimensione “artistica” dell’eloquenza: di qui la frequente insistenza sul piacere che essa provoca agli ascoltatori.
LA STORIA DELL'ELOQUENZA ROMANA DEL ‘BRUTUS’
Cicerone e gli atticisti
Nel ‘Brutus’, composto nel 46 a. Chr.n. sotto la dittatura di Cesare, Cicerone riprese, dopo diversi anni, la riflessione sull’oratoria. Da qualche tempo gli orientamenti fondamentali della sua eloquenza venivano messi in discussione da un gruppo di oratori più giovani, i cosiddetti atticisti. Le loro preferenze andavano a uno stile piano, conciso, incisivo, per il quale si ispiravano a modelli dell’eloquenza ateniese come Lisia; criticavano Cicerone per non avere preso sufficienti distanze dallo stile “asiano”: egli appariva loro troppo ridondante di parole e troppo attento agli effetti del ritmo e della sonorità.
Cicerone come culmine dell’oratoria romana
Anche il ‘Brutus’ è un dialogo, che ha per protagonisti l’autore stesso, l’amico Attico e Bruto. Dedicando l’opera a quest’ultimo, Cicerone si proponeva di sottrarre all’influenza degli atticisti un personaggio che gli pareva ben avviato verso la carriera di oratore. Egli si sforzò di delineare le proprie preferenze stilistiche nel quadro di una storia dell’eloquenza romana, dalle origini fino all’epoca attuale, ricostruita con grande talento di critico letterario. In questo contesto Cicerone colloca la propria stessa produzione, puntando a enucleare le caratteristiche salienti che avevano fatto del suo stile oratorio il più originale che Roma avesse mai conosciuto: la mirabile varietà dei toni, la capacità di mettere in luce le implicazioni generali delle cause in questione, l’abbondante uso dell’umorismo, il ricorso alla filosofia e alla storia, la sovrana abilità nel pilotare le emozioni dell’uditorio
La dittatura opprime l’eloquenza
Il ‘Brutus’ è tuttavia percorso da una fortissima vena di pessimismo sulle sorti future dell’eloquenza romana, che trova talora espressione in toni di struggente malinconia: dopo una splendida fioritura, culminata con lo stesso Cicerone, l’oratoria appare avviata a un inesorabile declino, dal momento che la dittatura di Cesare ormai inibisce la libera espressione politica e chiude ogni spazio ai nuovi talenti.
Contro gli atticisti: necessità di uno stile vario e potente
La linea di difesa adottata da Cicerone nei confronti degli atticisti consiste in primo luogo in una ridefinizione dello stesso “stile attico”, la quale, contro allo stile smagrito ed esangue di Lisia, privilegia il modello di Demostene, l’oratore più grande e più vario che Atene avesse conosciuto. Ma nei confronti degli atticisti Cicerone avanza anche una seconda importante obiezione: il valore dell’eloquenza si misura sulla capacità di persuadere larghe masse di persone; quindi il metro per giudicare l’eloquenza deve essere costituito dal successo che essa riscuote presso il popolo, prima che dal parere degli intenditori dall’orecchio raffinato e dal gusto elegante. Si richiede pertanto non uno stile sobrio e misurato quale quello che gli atticisti privilegiavano, ma uno stile dagli effetti potenti e grandiosi, tali da scuotere in profondità le coscienze.
L’ ‘Orator’
La polemica con gli atticisti continuò nell’ ‘Orator’, un trattato anch’esso dedicato a Bruto: tesi fondamentale dell’opera è che l’oratore veramente grande sa eccellere in tutti i registri dello stile, e in particolar modo in quello “grandioso” e commovente, capace di smuovere con violenza gli animi degli ascoltatori: una capacità che, a giudizio di Cicerone, mancava totalmente all’eloquenza troppo controllata degli atticisti.
3. I DIALOGHI POLITICI: ‘DE RE PUBLICA’ E ‘DE LEGIBUS’
Le opere politiche di Cicerone nascono, al pari delle successive opere filosofiche, dal bisogno di cercare un risposta alla gravissima crisi politica e morale che Roma stava attraversando. Il ‘De re publica’ fu pubblicato nel 51 a. Chr.n.: è un dialogo in sei libri (pervenutoci in condizioni assai lacunose), ambientato nel 129 a. Chr.n., cui intervengono Scipione Emiliano e altri membri della sua cerchia; la conversazione ha per oggetto quale sia la migliore forma di stato.
La “costituzione mista”
Cicerone riprende da diversi pensatori greci (tra i quali lo storico Polibio) la dottrina della cosiddetta “costituzione mista”.In base a questa teoria, le tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) sono viste come inevitabilmente soggette a degenerare nelle rispettive forme “estreme” della tirannide, della oligarchia (governo dei pochi) e della oclocrazia (governo della feccia del popolo). Per questo è necessario il contemperamento di elementi delle tre diverse costituzioni in una forma statale equilibrata, tale da prevenire le tendenze degenerative. La costituzione mista si realizza nel modo più compiuto nello stato romano, dove l’elemento monarchico si rispecchia nel consolato, l’elemento aristocratico nel senato, e quello democratico nei comizi popolari.
"Storicismo” di Cicerone"
Si nota qui una divergenza fondamentale dalla ‘Repubblica’ di Platone, che pure ha fornito lo spunto all’elaborazione dell’opera: Cicerone non pensa a uno stato “ideale”, costruito in base a un modello teorico; secondo una visione di tipo “storicistico”, lo stato che più si avvicina all’ideale è identico alla ‘res publica’ romana, che ha raggiunto la sua compiutezza attraverso secoli di lenta formazione.
Tendenza conservatrice della dottrina della costituzione mista
In realtà, nell’analisi ciceroniana la tripartizione dei poteri si risolve in una più fondamentale bipartizione, tra elemento aristocratico (senato e consoli insieme) e elemento democratico; a un’interpretazione largamente estensiva dell’autorità del senato, Cicerone ne affianca una altrettanto limitativa dei poteri del popolo. Ciò mostra come la dottrina della costituzione mista ubbidisca in sostanza a una tendenza conservatrice: il mantenimento dei vigenti rapporti di potere e di proprietà, e la contemporanea garanzia, per i ceti inferiori, di una voce più o meno nominale negli affari politici.
L’uomo politico ideale: il ‘princeps’
Nel ‘De re public’a l’uomo politico ideale si configura come un arbitro delle divergenze interne al corpo sociale: a questa figura di statista veniva attribuito il nome di ‘princeps’ (“leader politico”) o di “timoniere dello stato”; l’uso del termine al singolare non presuppone affatto che il governo dello stato debba essere affidato a una sola persona (Cicerone non prefigura esiti di tipo “augusteo”), ma designa piuttosto un “tipo” ideale (come nel titolo ‘De oratore’), cui i membri di spicco della classe dirigente devono conformarsi.
L’educazione e la formazione del ‘princeps’ erano trattate in sezioni del dialogo delle quali restano solo scarsi frammenti. Emerge l’immagine di un personaggio animato da un giusto desiderio di gloria (che lo spinge all’impegno e alla fatica), cui si affianca tuttavia l’ascetico disprezzo di ogni vantaggio personale (che gli impedisce di anteporre il proprio interesse a quello dello stato): un modello di uomo politico la cui la capacità di governo è fecondata da una ricca e profonda meditazione filosofica.
Giustificazione dell’imperialismo romano
I protagonisti del ‘De re public’a si impegnano, tra l’altro, in un’approfondita discussione sulla giustizia del dominio romano sugli altri popoli. L’imperialismo romano è pienamente giustificato in quanto apportatore di regole di civiltà a popolazioni di per sé incapaci di autogoverno; di conseguenza vengono sottoposti a una dura confutazione gli argomenti con i quali il filosofo greco Carneade, in conferenze rimaste famose, aveva indicato nella sete di rapina la ragione fondamentale dell’espansione di Roma.
Il ‘Somnium Scipionis’
La ‘Repubblica’ di Platone si chiudeva col mito del soldato caduto in guerra che, tornato in vita, raccontava quanto aveva visto nel mondo dei morti. Ricercando un superiore effetto di verosimiglianza, il ‘De re publica’ di Cicerone si conclude non con un mito, ma col racconto di un sogno dell’Emiliano, in cui l’avo adottivo, Scipione Africano, gli era parso condurlo in cielo, per mostrargli di là la piccolezza e l’insignificanza delle cose umane, compresa la gloria terrena, e rivelargli tuttavia come ai grandi uomini di stato, benefattori della patria, fosse riservata l’immortalità e una perpetua dimora celeste. Si tratta di un “pezzo” letterario elevatissimo per capacità visionaria. L’insistenza sulla precarietà delle cose terrene ha la funzione di svuotare l’animo dell’uomo politico da ogni
ambizione e brama personale, per trasformare la sua attività in un servizio nei confronti della comunità, e della divinità che gli impone questa missione. La promessa di immortalità, alimentata da suggestioni filosofiche diverse, intende offrire all’uomo politico un sostegno tale da farlo perseverare nella sua azione anche di fronte all’incomprensione o all’ostilità dei contemporanei, e insieme risarcirlo di un’esistenza interamente alienata nell’ossequio al dovere.
Il dialogo ‘De legibus’
Cicerone lasciò incompiuto il dialogo ‘De legibus’ (a noi restano i primi due libri e parte del terzo), che doveva affiancarsi al ‘De re publica’ come le ‘Leggi’ alla ‘Repubblica’ di Platone. Muovendo da problemi di filosofia del diritto, Cicerone in pratica emanava un suo codice di leggi per lo stato romano, di stampo sostanzialmente conservatore e tradizionalistico. Egli suggeriva l’accrescimento dei poteri del senato, ma il suo “moderatismo” lo spingeva a cercare di “addomesticare” il popolo, evitando lo scontro frontale.
4. LE OPERE FILOSOFICHE
Filosofia e rinnovamento sociale
Cicerone compose le sue opere filosofiche nel periodo di forzato ritiro sotto la dittatura di Cesare, con l’intento di far conoscere ai Romani i contenuti del pensiero filosofico greco; ai suoi occhi la rigenerazione etico-politica della ‘res publica’ richiedeva che la cultura filosofica — la quale comportava, tra l’altro, una riflessione sui valori che erano alla base della convivenza sociale — divenisse elemento costitutivo della educazione dei gruppi dirigenti di Roma e dell’Italia.
Il ‘corpus’ delle opere filosofiche
Forniamo qui l’elenco delle opere filosofiche di Cicerone; in seguito daremo una breve caratterizzazione solo di alcune tra le più significative. Dopo i ‘Paradoxa Stoicorum’, del 46 (che hanno più che altro il carattere di un’esercitazione retorica), tra il 45 e il 44 compaiono, nell’ordine, la ‘Consolatio’ per la morte della figlia Tullia, un dialogo di esortazione alla filosofia, l’ ‘Hortensius’ (di ambedue non restano che frammenti), gli ‘Academica’ (“Dispute accademiche”, sulla teoria della conoscenza), il ‘De finibus bonorum et malorum’ — “Il sommo bene e il sommo male” —e le ‘Tusculanae disputationes’ (ambedue sui problemi della filosofia morale), il ‘De natura deorum’, il ‘Cato Maior de senectut’e (sul ruolo degli anziani nella società romana), il ‘De divinatione’ (critica delle pratiche divinatorie e delle varie forme di superstizione diffuse nella società romana), il ‘De fato’, il ‘Laelius de amiciti’a (sul contrasto tra l’amicizia disinteressata e l’amicizia come forma di partigianeria politica), un perduto ‘De gloria’, e infine il De officiis’ (“Sui doveri”), composto nel pieno della lotta contro Antonio.
Originalità di Cicerone
Le opere filosofiche di Cicerone dipendono largamente dalla produzione di pensatori greci, ma hanno un taglio profondamente originale soprattutto per ciò che riguarda l’adattamento del pensiero greco alla situazione romana: a buon diritto egli poteva vantarsi di avere dato alla sua patria, dopo un’eloquenza in grado di reggere il confronto con i massimi modelli greci, una letteratura filosofica in forma artistica.
Forma letteraria delle opere filosofiche
Per l’esposizione e il confronto delle diverse dottrine filosofiche, Cicerone seppe infatti trovare una forma letteraria capace di interessare un pubblico relativamente vasto, e che non avesse come esclusivi destinatari i professionisti della filosofia — una forma dialogica accattivante, per cui egli si rifaceva alla tradizione accademica e peripatetica —; perciò egli insiste moltissimo sulla necessità del legame tra filosofia ed eloquenza elegante e persuasiva.
Un nuovo modello di filosofo
In precedenza, a Roma la filosofia era appannaggio pressoché esclusivo di insegnanti greci, il cui status sociale era in genere poco elevato. Del tutto nuovo è il tipo di impegno filosofico realizzato per la prima volta da Cicerone: quello del cittadino eminente per cui la filosofia non è una “professione”, un settore esclusivo di attività, ma uno degli ingredienti di una vita spesa al servizio dello stato. Si comprende così che anche i personaggi chiamati a discutere nei dialoghi ciceroniani non siano filosofi di professione, ma Romani dei ceti elevati: ciò permette di mettere in rilievo il legame tra filosofia e impegno civile.
La filosofia neoaccademica: scetticismo e libera ricerca
Per orientarsi tra le diverse posizioni filosofiche in conflitto, Cicerone si rivolse allo scetticismo della Nuova Accademia, una delle filiazioni della scuola platonica; uno scetticismo che egli presenta come cosa ben diversa da un incerto vagolare tra le opinioni: si tratta piuttosto di impostare una ricerca aperta, libera da preclusioni, tesa a fare emergere, dal confronto tra le diverse posizioni, i criteri di una morale aliena da certezze assolute e da un anacronistico rigorismo, ma sufficiente a orientare correttamente l’azione (è il cosiddetto “probabilismo”: la ricerca non del vero, che è inattingibile, ma di quanto appare maggiormente probabile e verosimile).
Oscillazioni e ondeggiamenti nella ricerca filosofica di Cicerone
Del tutto alieno dallo spirito di sistema, Cicerone rivendica la legittimità di modificare di volta in volta le proprie opinioni: la sua produzione filosofica documenta le tappe e gli ondeggiamenti di questa ricerca.
Soprattutto quando in lui prevalgono le esigenze di consolazione e di conforto (come nelle ‘Tusculanae’), oppure quando avverte più acutamente la necessità di dare nuovo e più credibile fondamento ai valori tradizionali (come nel ‘De officiis’ e in parte nel ‘De finibus’), Cicerone si sforza di superare una critica puramente “corrosiva”, per orientare la sua ricerca verso uno sbocco positivo: sostanzialmente la commistione di un generico platonismo con uno stoicismo indebolito nelle pretese dogmatiche ma ritenuto, per la sublimità della sua visione dell’ordine del cosmo e per la nobiltà degli atteggiamenti che promuove, una guida rigorosa e seducente alla rettitudine del comportamento.
Il ‘De finibus bonorum et malorum’
Nel ‘De finibus bonorum et malorum’ la demolizione delle pretese dei sistemi filosofici contrapposti permette tuttavia di stabilire tra essi una gerarchia. L’epicureismo viene ripudiato con decisione, per il suo edonismo materialistico e perché si fa promotore di un atteggiamento di astensione dall’impegno nella vita pubblica; dello stoicismo vengono criticati il dogmatismo, l’esasperato rigorismo morale, la pretesa della radicale indifferenza del saggio rispetto a tutte le contingenze esterne (come la malattia o la salute, la libertà o l’asservimento della patria); ma viene anche sottolineata la nobiltà con la quale la dottrina stoica identifica il bene supremo con la virtù. Non sembrano soddisfare totalmente Cicerone nemmeno altre correnti di pensiero, che tentavano di conciliare l’intransigenza morale degli stoici con la maggiore apertura umana della filosofia accademica e peripatetica.
Le ‘Tusculanae disputationes’
Dopo l’inquadramento teorico della problematica morale fornito nel ‘De finibus’, le ‘Tusculanae’ si occupano di questioni di etica pratica: il modo di fortificare la personalità di fronte al timore della morte e del dolore, e di fronte all’assalto delle passioni. Le ‘Tusculanae’ rispecchiano uno stato d’animo profondamente angosciato, e bisognoso di consolazioni d’ogni sorta (Cicerone soffriva sia per la recente scomparsa della figlia, sia per l’oppressione della dittatura); proprio la forza dell’anelito consolatorio indirizza la ricerca, ben più che in altre opere (per es. nel ‘De divinatione’, dove è fortissimo l’afflato dello scetticismo “illuministico”), verso esiti “affermativi” che ben poco conservano delle originarie istanze critiche del metodo neoaccademico.
Il bisogno di consolazione nelle ‘Tusculanae’
Dominato dal disgusto per una vita piena di sofferenze, Cicerone si muove tra il bisogno di immortalità, che lo spinge verso una vaga religiosità di tipo platonizzante, e la considerazione che anche la prospettiva del totale annientamento non esime dal disprezzo per la morte e dall’amore per la virtù. Nonostante vengano mantenute ferme alcune ragioni fondamentali di dissenso, la convinzione della necessità dell’assoluto dominio delle passioni da parte della ragione avvicina Cicerone al rigorismo stoico quanto lo allontana dalla sua più consueta simpatia per l’ampia, umana tolleranza dei peripatetici. Egli ora sembra infatti accettare la tesi secondo cui l’animo è indifferente alle cose esterne. La svalutazione dell’esistenza in ogni suo aspetto sbocca nell’elogio di una sapienza che, trincerata in se stessa nell’attesa della liberazione della morte, sola sa sollevarsi al di sopra delle bassezze e dell’infelicità della condizione umana.
Il ‘De officiis’: una morale per la società romana
L’ultima delle opere filosofiche di Cicerone, il ‘De officiis’, non è un dialogo, ma un trattato indirizzato alla formazione etico-politica della gioventù e alla costruzione di un modello di comportamento, pubblico e privato, per i futuri membri della classe dirigente. Cicerone pose a fondamento del ‘De officiis’ lo stoicismo riformato, più aperto e “mondano”, di Panezio, che rispondeva al suo bisogno di dare nuova fondazione ai valori tradizionali, di addolcirne l’intransigenza senza sottoporli a una critica dissolutoria. Il ‘De officiis’ è un’opera per certi aspetti bifronte: per quanto largamente aperto ai problemi di una società moderna, e a un notevole pluralismo dei modelli di vita, per altri versi il trattato si rivela profondamente intollerante, dominato dalla radicale chiusura ai ceti meno abbienti e dalla riproposizione in toni autoritari dei princìpi etico-politici dell’antica ‘res publica’ aristocratica. Durissima è la polemica contro il morto Cesare, presentato ai ceti possidenti come un tiranno eversore, avido di confische e di rapina.
5. L'ARTE ESPRESSIVA DI CERONE COME PROSATORE
I procedimenti del periodo ciceroniano
Come abbiamo già accennato, Cicerone privilegiava, nell’eloquenza, uno stile capace di esercitare un forte impatto emotivo sugli ascoltatori. A questa intenzione va ricondotta la sua “magniloquenza”, criticata dagli atticisti, e che si esprime, prima ancora che nel ricorso alla ‘copia verborum’ (“abbondanza di parole”, che spesso significa ridondanza espressiva al fine di ribadire un concetto) e alla ‘amplificatio’ (la “dilatazione” di un concetto, al fine di farlo apparire più grandioso, maestoso, o spaventoso), nella sapiente costruzione del periodo prosastico, che nella letteratura latina è essenzialmente una innovazione ciceroniana. Ispirandosi soprattutto ai modelli di grandi oratori greci come Isocrate e Demostene, Cicerone eliminò la paratassi (“coordinazione”) tipica della prosa arcaica a favore della ipotassi (“subordinazione”), e costruì un periodo ampio e armonioso, basato sull’equilibrio e sulla rispondenza delle parti.
Creazione di un lessico filosofico latino
Nella prosa retorica e filosofica Cicerone sfruttò ampiamente lo stile che aveva elaborato per l’eloquenza. Ma, particolarmente nella filosofia, egli dové cimentarsi anche con la povertà espressiva del latino, di per sé inadatto a rendere adeguatamente molti termini e concetti del lessico intellettuale greco. Per la traduzione dei termini greci Cicerone si impegnò in un’accanita sperimentazione, che ebbe come risultato l’introduzione nel latino di molti neologismi che sarebbero divenuti patrimonio della tradizione intellettuale europea (come ‘qualitas’, ‘quantitas’, ‘essentia’, e così via).
6. LE OPERE POETICHE
Gli interessi poetici occupano, nel quadro della complessiva produzione di Cicerone, uno spazio ridotto ma non insignificante. In gioventù, compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico e tradusse in latino i ‘Fenomeni’, il poema di didascalica meteorologica del poeta ellenistico Arato; successivamente tradusse anche la seconda sezione del poema di Arato, i Pronostici (della traduzione, condotta con un gusto sostanzialmente enniano che però non si preclude sporadiche raffinatezze “preneoteriche”, restano porzioni di una certa estensione). Dalla sua esperienza di uomo politico, Cicerone si sentì tuttavia spinto soprattutto verso l’epica di argomento nazionale: compose, sempre in stile enniano, un poema sul proprio consolato e sulla lotta contro Catilina, i cui resti lasciano intravedere barocchismo e ridondanza stilistica, e uno sulle gesta di Gaio Mario.
7. L'EPISTOLARIO
Di Cicerone ci sono pervenute numerosissime lettere, suddivise in diverse raccolte: ‘Epistulae ad Atticum’ (a Tito Pomponio Attico, l’amico di tutta la vita, in 16 libri); ‘Epistulae ad familiares’(amici, parenti, personaggi coi quali Cicerone intratteneva relazioni, in 16 libri); 3 libri di ‘Epistulae ad Quintum fratrem’ e 2 libri (il secondo di autenticità controversa) di ‘Epistulae ad Marcum Brutum’. Si tratta di un epistolario estremamente ricco e vario; accanto ai bigliettini buttati giù in tutta fretta, abbiamo i resoconti vivaci della vita politica, e anche le epistole elaborate fino ad attingere la dignità letteraria di veri e propri trattati.
Documento storico e psicologico
Permettendo a volte di seguire quasi quotidianamente l’evolversi degli avvenimenti politici, l’epistolario ciceroniano ha un valore storico eccezionale; per il fatto di nascere in buona parte da esigenze di comunicazione privata e personale, esso ci rivela anche gli aspetti più intimi e segreti della personalità di Cicerone, nella loro maggiore o minore nobiltà. Di nessun altro personaggio del mondo antico conosciamo così a fondo la psicologia, anche nelle pieghe più riposte.