La versione
ELOQUENTIA CULTUS ATQUE HUMANITATIS MAGISTRA
Si
volumus huius rei, quae vocatur eloquentia, sive artis sive studii sive
exercitationis cuiusdam sive facultatis ab natura profectae considerare
principium, reperiemus id ex honestissimis causis natum atque optimis
rationibus profectum.
Nam fuit quoddam tempus, cum in agris
homines passim bestiarum modo vagabantur et sibi victu fero vitam
propagabant nec ratione animi quicquam, sed pleraque viribus corporis
administrabant, nondum divinae religionis, non humani officii ratio
colebatur, nemo nuptias viderat legitimas, non certos quisquam
aspexerat liberos, non, ius aequabile quid utilitatis haberet,
acceperat.
Ita propter errorem atque inscientiam caeca ac temeraria dominatrix
animi cupiditas ad se explendam viribus corporis abutebatur,
perniciosissimis satellitibus.
Quo tempore quidem magnus videlicet vir et sapiens cognovit, quae
materia esset et quanta ad maximas res opportunitas in animis inesset
hominum, si quis eam posset elicere et praecipiendo meliorem reddere;
qui dispersos homines in agros et in tectis silvestribus abditos
ratione quadam compulit unum in locum et congregavit et eos in unam
quamque rem inducens utilem atque honestam primo propter insolentiam
reclamantes, deinde propter rationem atque orationem studiosius
audientes ex feris et immanibus mites reddidit et mansuetos.
Ac mihi quidem hoc nec tacita videtur nec inops dicendi sapientia
perficere potuisse, ut homines a consuetudine subito converteret et ad
diversas rationes vitae traduceret.
Age vero urbibus constitutis, ut fidem colere et iustitiam retinere
discerent et aliis parere sua voluntate consuescerent ac non modo
labores excipiendos communis commodi causa, sed etiam vitam amittendam
existimarent, qui tandem fieri potuit, nisi homines ea, quae ratione
invenissent, eloquente persuadere potuissent ?
Profecto nemo nisi gravi ac suavi commotus oratione, cum viribus
plurimum posset, ad ius voluisset sine vi descendere, ut inter quos
posset excellere, cum iis se pateretur aequari et sua voluntate a
iucundissima consuetudine recederet, quae praesertim iam naturae vim
optineret propter vetustatem.
- ELOQUENZA MAESTRA DI VITA E DI CIVILTA'-
Se vogliamo considerare il principio di questa cosa, che vieni chiamata eloquenza, o in quanto arte o interesse determinata abilità o facoltà derivata dalla natura, troveremo che questo è nato da onorevolissime origini e progredito per ottime ragioni.
Infatti
ci fu un tempo in cui gli uomini vagavano nei campi qua e là alla
maniera delle bestie e vivevano in maniera selvaggia e non gestivano
nulla con la ragione, ma la maggior parte delle cose con la forza
fisica, non ancora era praticato il rispetto verso la religione divina,
né verso i doveri umani, nessuno aveva visto nozze legittime, nessuno
aveva visto figli sicuramente propri, nessuno aveva inteso che utilità
avesse una giustizia imparziale.
Così a causa del dubbio e
dell'ignoranza l'avidità, cieca e temeraria dominatrice dell'animo,
sfruttava per soddisfarsi le forze del corpo, complici pericolosissimi.
In questo tempo, dunque un uomo senza dubbio grande e sapiente, venne a
conoscenza di quale materia ci fosse a disposizione e di quanto grandi
fossero le potenzialità negli animi degli uomini per raggiungere
grandissimi risultati, se qualcuno avesse potuto tirarle fuori e con
l'insegnamento renderle migliori: costui radunò e riunì con un certo
progetto in un unico luogo gli uomini sparpagliati per i campi e
nascosti in rifugi silvestri e inducendo a ciascuna attività utile e
onorevole quelli che prima protestavano per la mancanza di abitudine,
poi ascoltavano con maggiore interesse per l'intelligenza del discorso,
li rese miti e mansueti da selvaggi e bestiali che erano.
E, non mi sembra, dunque, che una saggezza tacita e priva di eloquenza
avrebbe potuto fare ciò, ovvero allontanare gli uomini immediatamente
dalle loro consuetudini e portarli verso diverse condotte di vita.
Suvvia, una volta fondate le città, che imparassero a coltivare la
lealtà e mantenere la giustizia e si abituassero ad obbedire agli altri
di loro spontanea volontà e considerassero necessario non solo
accollarsi delle sofferenze per il bene comune, ma anche perdere la
vita, come infine sarebbe potuto accadere, se degli uomini non avessero
potuto persuadere con l'eloquenza di ciò che avevano trovato con la
ragione?
Certamente nessuno se non spinto da un'orazione intensa e soave,
potendo moltissimo con la forza, avrebbe voluto sottomettersi senza
resistenza alla legge, in modo da sopportare di essere alla stesso
livello di coloro tra i quali avrebbero potuto eccellere e da
allontanarsi di sua spontanea volontà dalle sue piacevolissime
consuetudini, tanto più che oramai a causa del lungo tempo passato
mantenevano una forza naturale.
IL COMMENTO
Il
brano tratta un argomento molto caro a Cicerone, grande sostenitore
dell'importanza dell'arte retorica nella formazione di un cittadino
romano.
Il messaggio espresso attraverso la storia narrata è
chiaro ed evidente: attraverso l'eloquenza è possibile muovere le
masse, convincerle delle proprie idee, porre le basi per nuovi tipi di
società, plasmando la volontà degli uomini attraverso un sapiente uso
della parola.
Questa concezione della retorica è figlia del tempo in cui vive
l'autore, ovvero una repubblica ancora nel pieno del suo splendore,
anche se minacciata da continui pericoli ( cfr. Congiura di Catilina),
in cui homo novus come Cicerone può emergere dal nulla, ricoprire
importanti cariche, fino ad esercitare un'importante influenza sul
Senato, grazie soprattutto alla sua integrità morale e alla sua abilità
oratoria.
La grande fioritura dell'eloquenza in questo periodo e la strenua
fiducia dell'oratore di Arpino nelle sue possibilità sono dovute alla
libertà di parola e iniziativa di cui godevano gli individui, ma anche
al sostanziale regime di caos che vigeva nell'epoca tardo -
repubblicana, che portava i cittadini a prendere spesso la parola,
proponendo e assicurando cambiamenti, sfidandosi sul piano della
dialettica.
Lo stesso Tacito sostiene che l'eloquenza sia come una fiamma che per
bruciare ha bisogno di aria e che quindi non sia possibile uno sviluppo
di una grande oratoria in un'epoca di soprusi e repressioni come quella
in cui visse, tuttavia è preferibile la pace che assicura " l'impero"
alla fioritura dell'arte, che proliferava nell'epoca ricca di tumulti e
sconvolgimenti precedenti all'avvento di Augusto.
L'importanza che Cicerone conferisce all'eloquenza si può collegare
alla diffusione delle idee della prima Sofistica in Grecia. E' risaputo
che l'autore latino, pur rimanendo un convinto purista del latino e
manifestando apertamente il suo disprezzo nei confronti del filo-
ellenismo ( cfr. Condanna dei poeti neoteroi come Catullo), sia un
profondo conoscitore del mondo greco e delle sue tendenze culturali. Si
può ipotizzare che Cicerone sia stato in qualche modo, quindi,
influenzato da questo aspetto, ma la sua concezione della retorica ha
origine molto più probabilmente romane che greche.
Infatti mentre la Sofistica, in particolare la seconda Sofistica, si
orienta verso un vuoto e sterile edonismo della parola, l'oratoria a
cuoi pensa Cicerone ha un profondo significato politico, costituendo il
motore dei cambiamenti della società verso un continuo progresso.
Da un punto di vista stilistico, il brano ricalca le principali
caratteristiche della prosa di Cicerone. Alla paratassi viene preferita
di norma l'ipotassi, il che porta ad avere spesso periodi costituiti da
numerose subordinate e conferisce al discorso una consequenzialità
rigorosa, quasi di carattere filosofico.
I lunghi periodi ciceroniani sono organizzati secondo un'architettura
rigorosa ed armoniosa, anche se complessa, vivacizzata da numerose
prolessi, che movimentano l'esposizione del pensiero, rendendola più
incisiva ed efficace.
L'autore ricorre spesso ad antitesi e parallelismi, in maniera da
mettere in relazione e a confronto due parti del periodo, rendendo
l'argomentazione più semplice ed immediata.
Interessante, infine, l'uso che fa l'autore del termine ratio, che
assume diversi significati a seconda del contesto, ma che in ognuno di
essi conserva al suo interno un'idea di "razionalità", contrapposta
alla selvaggia brutalità degli uomini prima della costituzione della
società.
Quest'ultima osservazione si può riallacciare ad un discorso più ampio,
che riguarda la contrapposizione tra "società" e " stato di natura".
La visione negativa di Cicerone dello " stato di natura", figlia della
sua intramontabile fiducia nelle istituzioni civili, entra in
contrasto, per esempio, con la visione di un autore settecentesco come
Rosseau, il quale vede nella nascita della società l'inizio dell'uomo e
nella vita ad essa precedente un modello da seguire utopicamente.
Le concezioni politiche di Cicerone si possono quindi inserire
nell'ambito " contrattualistico" che sostiene la validità di una
società costruita su un accordo tra uomini che prende il nome di
Costituzione e sull'impegno a farla rispettare.