Traduzione e Commento del vincitore
CICERONE RIFERISCE QUEL CHE VARRONE PENSAVA DEL PROGRESSO DELLA FILOSOFIA
Così, allora, esordì Varrone: “A me sembra che Socrate—il che è chiaro a tutti—sia stato il primo ad allontanare la filosofia da questioni oscure e per loro stessa natura involute, di cui tutti i filosofi a lui precedenti si erano occupati, e a ricondurla alla vita di tutti i giorni, cosicché si facesse indagine sulle virtù e sui vizi e, in generale, sul bene e sul male, mentre invece le cose celesti si ritenessero o lontane dalla nostra capacità di conoscenza o, se pure potessero essere ben conosciute, per nulla servire, tuttavia, al viver bene. Costui, in quasi tutti i suoi discorsi , che da coloro che lo ascoltarono sono stati in vario modo e abbondantemente trascritti, discute in modo tale da non dare egli stesso alcunché per vero, da smentire gli altri, da affermare di non sapere nulla se non proprio questa cosa, e che in ciò supera gli altri, per il fatto che essi ritengono di sapere le cose che non sanno, egli, invece, solo questa cosa sa, cioè di non sapere nulla, e che per questo motivo crede di essere definito da Apollo il più sapiente di tutti, poiché l’unica sapienza dell’uomo sta in questo: nel non ritenere di sapere quel che non sa. Poiché diceva queste cose con convinzione e restava di questa opinione, ogni suo discorso era speso soltanto nel lodare la virtù e nell’esortare gli uomini allo studio di essa, come si può evincere dai libri dei Socratici e soprattutto di Platone. Come conseguenza poi dell’autorità di Platone, che fu nutrito di varia cultura e versatile ed eloquente, si costituì un solo modello coerente di filosofia, pur con due denominazioni, quella degli Accademici e quella dei Peripatetici, che, conformi nei contenuti, differivano nei nomi. Infatti, pur avendo Platone lasciato per così dire erede della propria filosofia il figlio della sorella Speusippo, egli ebbe anche due discepoli di eccezionale zelo e cultura filosofica, Senocrate di Calcedonia e Aristotele di Stagira; i seguaci di Aristotele furono chiamati Peripatetici, poiché discutevano passeggiando nel Liceo, quelli ,invece, che secondo la regola stabilita da Platone si riunivano nell’Accademia (che è un altro ginnasio) e lì erano soliti tenere discorsi, presero il nome da quel luogo. Ma gli uni e gli altri, colmi della facondia di Platone, misero insieme una precisa regola della scuola e per di più completa e ricca di norme, mentre
abbandonarono quella consuetudine, tipica di Socrate, di discorrere riguardo ad ogni cosa in forma di dubbio e senza alcuna asserzione. Così è venuta a crearsi - cosa che per nulla Socrate approvava - un sistema filosofico e un ordine gerarchico delle cose e una ripartizione disciplinare”.
COMMENTO
Il brano, tratto dagli Academicorum libri, è una sintesi dello sviluppo filosofico in Grecia a partire dai Presocratici fino ad arrivare ai discepoli di Platone, che vengono suddivisi nelle due denominazioni dei Peripatetici e degli Accademici. L’opera, scritta da un giovane Cicerone ancora immerso negli studi, risulta essere poco più che un esercizio di retorica. Il Nostro non ha ancora affinato il proprio stile, quello stile non eccessivamente concettoso né eccessivamente lineare che da secoli affascina e tormenta coloro che intraprendono gli studi classici e di cui inesorabilmente finiscono per innamorarsi. L’influenza dell’asianesimo ancora si fa sentire e il lettore quasi si perde nell’intreccio di un’ipotassi che sempre, però, è possibile sciogliere. Cicerone riporta in questo brano le parole dell’erudito Varrone, che s’intende di filosofia e cerca di ripercorrere la storia dei primi filosofi greci, il cui pensiero è alla base dello sviluppo successivo. In questa sua analisi, Varrone nota che l’evoluzione della filosofia, il progressus plilosophiae, almeno per quanto riguarda i pensatori che appaiono nel passo tradotto, segue la tendenza del passaggio dall’ignoto al noto, dall’indeterminato al determinato, dalle res occultae alla vita communis: i presocratici si occupavano delle “cose divine” o, al più, di determinati principi astratti che stessero alla base di tutti i fenomeni naturali o della creazione della Terra. Socrate, invece, studia le virtù, i vizi, il bene, il male: in una parola, egli studia l’uomo. Socrate rappresenta, dunque, un importantissimo punto di transizione; è un innovatore rispetto a tutto il pensiero precedente. Egli ha determinato lo spostamento del punto focale dell’analisi filosofica dalle caelestia all’homo, dall’astratto al concreto. Questo mutamento di prospettiva produce un ulteriore effetto: il pensiero filosofico ricerca una sempre maggiore certezza. Esempio di questo secondo passaggio è lo sviluppo di una ars philosophiae, e di un ordo rerum e di una descriptio disciplinae all’interno della scuola peripatetica e di quella degli Accademici: mentre Socrate riteneva che la vera conoscenza non esistesse poiché saggio è solo l’uomo che sa di non sapere, i seguaci di Platone “certam quandam disciplinae formulam composuerunt et eam quidem plenam ac refertam”, “quod minime Socrates probabat”. La dottrina post-platonica è, in un certo senso, regolamentata: tutti coloro che vogliono prenderne parte, devono seguire delle norme non scritte, ma dettate dall’uso e in gran parte volute da Platone stesso, ogni parola del quale diventa, in forza della sua autorevolezza, un ordine. Accomuna però, le tre dottrine filosofiche il desiderio di trovare un principio fondante della realtà: le res occultae per i presocratici, la consapevolezza di non sapere per Socrate, un principio concreto e certo- non descritto nel brano esaminatoper Platone e i suoi seguaci. Questo principio è accessibile solo a pochi eletti, uomini dotati di grandissima cultura, tant’è vero che la dottrina post-platonica, unitaria nella sua molteplicità, è definita come quaedam certa formula disciplinae: certa per i filosofi che fanno parte di questo ampio sistema, quaedam per noi che ne restiamo esclusi. Cicerone sceglie sempre con attenzione i termini da utilizzare e di certo non può essere casuale l’accostamento di due aggettivi che sembrano quasi contraddirsi l’un l’altro. Sintomo dell’indecisione stilistica di Cicerone in quest’opera è lo spezzarsi della concinnitas che lo caratterizza: con frequenza ricorre, ad esempio, al chiasmo, figura retorica che è abitualmente a lui estranea. Quando egli parla dei seguaci di Aristotele e Senocrate, infatti, nel primo caso riporta inizialmente come essi venivano chiamati e poi spiega l’origine di tale nome; nel secondo, invece, inverte l’ordine delle informazioni da fornire: procedimento elegante certo, ma che non ci si aspetterebbe da Cicerone. Ciononostante, si riconoscono anche elementi del latino cosiddetto classico, come la concordanza del gerundivo con il sostantivo cui per funzione logica si riferisce, ricorrente nelle espressioni: in virtute laudanda e in hominibus cohortandis. Spicca, tra le altre figure retoriche, un caso di variatio nella espressione dubitanter de omnibus rebus et nulla affirmatione adhibita dove in luogo dell’ablativo assoluto ci si aspetterebbe un avverbio seguito da complemento di argomento.